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Quella Nazionale partiva da lì: Properzi-Orlandi-Cuttitta. Una e trina. Come ha detto Giacomo Bagnasco a Radio 24 con un paragone illuminato, quella cantilena era per gli amanti del rugby quello che la litania Sarti-Burgnich-Facchetti aveva rappresentato per i tifosi della grande Inter. Lo zoccolo duro, la base operaia che produceva per il collettivo, il punto di partenza di ogni prospettiva, il puntello nei momenti di difficoltà. Un pezzo di quel trio delle meraviglie non c’è più, questa maledetta pandemia ha piegato chi in campo ci sembrava invulnerabile, con schiena dritta e testa bassa non aveva paragoni, lui che dell’arte dell’ingaggio tra le prime linee aveva fatto una questione di orgoglio prima, una questione professionale poi.

 

Massimo Cuttitta contro  il Sudafrica, a Bologna, nel 1997

Sembra impossibile parlare al passato di Massimo Cuttitta, l’altra metà della coppia di gemelli che in campo ha scritto la storia più luminosa dell’Italia ovale, lui che puntualmente telefonava per fare due chiacchiere anche adesso che aveva deciso di ritirarsi in riva al mare laziale per stare vicino alla mamma, che non aveva rancori o vendette da consumare, che si sentiva realizzato perché il mondo ancora lo cercava per rubargli i segreti della mischia chiusa, ma che aveva scelto di essere pilone fino in fondo e di dedicare per un po’ le proprie energie alla famiglia. Aveva raggiunto la serenità dei giusti, mai una volta che si fosse accodato a una provocazione, quel “Nessuno è profeta in patria” era oramai diventato un ritornello e lui lo prendeva come un’allegra provocazione, perché Massimo Cuttitta di professione pilone non conosceva l’arte della vendetta. L’ultima volta che il telefono ha squillato, maledetta ultima volta, voleva solo raccontare dell’esperienza fatta con il Canada alla vigilia delle qualificazioni mondiali, una consulenza a gettone, rugby d’altri tempi, pochi soldi e tanta volontà, che era un piacere lavorarci perché quei ragazzi avevano solo voglia di imparare: “E impareranno”, disse. Negli ultimi tempi aveva avuto parecchi contatti, lo volevano in Irlanda per oliare la mischia in verde, continuavano a richiederlo dal Sudafrica dove mai aveva smesso di coltivare amicizie d’infanzia e laggiù non c’era una sola franchigia che non avesse provato a portarlo dalla sua parte, o si faceva sentire qualche club di Premiership, lui che ai tempi della chiamata degli Harlequins era stato il primo italiano della storia a varcare la Manica per giocare nel campionato degli spocchiosi inventori del gioco: “non lo dire, ma io adesso devo stare qui. Devo rinunciare a offerte importanti e mi giustifico dicendo che devo valutare, scegliere, capire cosa voler fare del mio futuro. Ultimamente per giustificarmi metto avanti la possibilità di lavorare per la mia Italia e allora capiscono, ma è solo un modo per sottrarmi alle pressioni. La verità è che dopo la morte di papà è giusto che la mamma non stia sola. Ci ha dato tanto, ha passato la sua vita a pensare a noi e adesso è giusto poterle dare in cambio un po’ di attenzione. Sto qui con lei e sono soddisfatto della mia scelta”. Non si poteva scrivere, ma era così, assenza giustificata per motivi familiari. Dannata ultima telefonata, piena di inviti a passare una giornata in barca, di racconti di passioni antiche, perché adesso c’erano in garage le due vecchie auto da sistemare e il restauro dei mezzi d’epoca, nelle sue priorità, stava prendendo il posto della posizione di spinta di un bravo pilone. E poi il motoscafo da rimettere in acqua e un sogno che era la carta d’identità di Maus Cuttitta, poche parole e tanti fatti: stava cercando un pezzo di terra a Lavinio perché voleva mettere su una scuola di rugby per i bambini del posto, trasmettere i valori che si sono persi per strada, tornare indietro e rivivere quello che lui e Marcello avevano vissuto in Sudafrica, figli di un ingegnere emigrante adottati come studenti modello dalla Pinetown High School, il primo college interraziale dove quei due inseparabili gemelli diversi avevano scoperto il rugby. E il rugby aveva scoperto loro.

In prima linea, con Properzi (a sinistra) e Orlandi (al centro)

Era fatto così Maus, grande e grosso ma incapace di cattiveria. Le sue priorità durante tutta la parabola agonistica erano state poche e chiare: prima di tutto giocare con Marcello, poi il resto. La fotografia di una simbiosi che andava oltre il campo da gioco l’ha scattata Paolo Vaccari: “Era uno spettacolo vederli insieme – racconta – e all’epoca della Nazionale quel loro muoversi all’unisono per noi era diventato anche un motivo per scherzare e, perché no, prenderli in giro. Mai che prendessero una decisione in autonomia, al punto che gli dicevamo che avevano mezzo cervello per uno e che quando c’era da scegliere dovevano riunirlo in una testa sola. Per me sono stati e continuano a essere un esempio, raramente ho visto due persone che vivessero in sintonia in quel modo”. Anche nelle ultime interviste Maus non aveva smarrito la bussola, alla fine si andava sempre lì, hai voglia a parlare dei suoi successi in Scozia, del riconoscimento internazionale che stava avendo come tecnico di successo, del fatto che nessuno è profeta in patria… “Sì, sto lavorando bene e sto avendo tante soddisfazioni. Però guardate che Marcello come tecnico è più bravo di me, lui sì che a Milano sta facendo cose eccezionali”. Una vita divisa in due, come quando a Durban, Coppa del Mondo 1995, dopo la fantastica festa che alla Pinetown School avevano organizzato per ringraziare quegli studenti di un tempo che erano diventati l’orgoglio del college nel mondo, al momento delle convocazioni per la sfida all’Inghilterra si visse un momento di brutale tensione. Georges Coste aveva fatto fuori Marcello, colpevole di non aver placcato e di essere stato tra i responsabili della disfatta inaugurale contro le Samoa. Maus era lì, in prima linea, Marcello in tribuna. La vigilia fu anticipata da una notte di cattivi pensieri, Massimo non voleva giocare, lo viveva come un affronto personale, non parlava con nessuno e si caricava di rabbia. Andò in campo, segnò una meta in silenzio, giocò la partita delle partite che ancora oggi resta la volta in cui l’Italia andò più vicina a fare la storia contro i padroni del gioco. Ci pensò pure l’arbitro a metterci del suo e la battaglia andò in archivio come una delle più onorevoli sconfitte, sempre quelle, della nostra storia. Alla fine Maus si prese la rivincita: “Una meta per l’Italia, una meta per la famiglia” dichiarò, e la storia si chiuse lì.

Con Massimo Giovanelli, capitani negli anni Novanta

Adesso è difficile pensare che quelle telefonate non arriveranno più, c’è una generazione di fenomeni che è rimasta senza un riferimento. Massimo Giovanelli, il capitano amico, è stato sempre uno dei combattenti più coraggiosi per la causa, mai ha nascosto di sognare Maus nello staff della Nazionale e nel momento più triste ha guardato in faccia la realtà: “Ho perso un fratello”. Come fratelli erano Ivan Francescato e Piero Dotto in azzurro, Pierpaolo Pedroni e Max Capuzzoni nel fantastico Milan dei 4 scudetti e di un gruppo che avrebbe portato l’Italia là dove mai avrebbe pensato di arrivare. In campo sembravano invulnerabili, immuni dai placcaggi della vita. Ecco perché oggi sembra tutto quasi irreale.

Maus era la mischia, aveva una sua filosofia che nel tempo si era trasformata in solida convinzione: “Noi eravamo i maestri dell’ingaggio. Franchino era un mostro di forza e con quel fisico aveva una posizione così perfetta che non lo spostavi neppure con le bombe. Io andavo basso che più basso non si può, allora tutto si decideva nell’impatto tra le prime linee, la bravura era prendere prima dell’avversario la posizione giusta. E dopo 4 o 5 mischie, quando si erano messe in chiaro le cose, tutto diventava più facile. Eravamo dominanti perché credevamo in quello che facevamo, perché eravamo una squadra e soprattutto perché eravamo forti”. Poi le cose sono cambiate, l’ingaggio è diventato una strategia soft, è l’arbitro che gestisce le operazioni e non il cuore del pilone. Maus si era adattato alle novità, aveva studiato, imparato, insegnato. Ma piloni si è dentro, fino all’anima: “Resto convinto che le partite si vincano in mischia, anzi in mischia chiusa. Chi vuole sminuire l’importanza di quella fase di gioco non conosce il rugby, perché l’essenza è tutta lì”.

Adesso è tutto diverso, perché nessun giocatore ti darà più la chiave della sua camera di albergo per andarti a riposare dopo una notte di viaggio infinito per raggiungere la Nazionale, perché nessuno ti telefonerà più solo per il gusto di avere notizie in nome di un legame sbocciato quando si inseguivano obiettivi comuni e il rugby era solo una parte del tutto, perché il rugby non ti dava da vivere per sempre e allora era bello sfruttarlo per fare amicizie, conoscersi, crescere. Il telefono non suonerà più e il silenzio sarà difficile da riempire.

Gli ultimi giorni sono stati uno strazio, prima mamma Nunzia, poi Maus l’invulnerabile. E allora è bello sapere che prima di piegarsi alla belva abbia rassicurato Marcello attraverso lo schermo di un tablet, alzato il pollice in segno di coraggio, si sia preoccupato ancora una volta solo della mamma. Andava in mischia per l’ultima volta, ma le regole d’ingaggio erano cambiate. Lui che è sempre stato un pilone moderno, anche trent’anni fa lo era, che non aveva il fisico per spaccare le montagne, ma la tecnica per scalarle, lui che ancora oggi avrebbe potuto dire la sua in quella sfida tra uomini votati al sacrificio, se n’è andato in silenzio, con l’umiltà che lo ha reso una delle colonne portanti dell’Italia del rugby.

Rimarrà un esempio da proporre ai futuri giocatori e agli aspiranti allenatori, un amico difficile da sostituire, un uomo di poche parole e grandi sentimenti, una guida per chi sa che si può arrivare lontano senza per forza dover recriminare e cavalcare il rancore. Arrivederci Maus, senza il tuo aiuto sarà tremendamente difficile capire come affrontare la mischia. Ma stai tranquillo, quaggiù ci penserà Marcello a ricordarcelo.

Box

Massimo Cuttitta era nato a Latina il 2 settembre del 1966. In Nazionale aveva esordito contro la Polonia a Napoli nel 1990, collezionando in tutto 70 cap, l’ultimo grazie alla battaglia di Allrugby che ha visto riconosciuta ufficiale, a più di vent’anni di distanza, anche la partita contro la Croazia, disputata a giugno del 1998. Ventidue volte capitano azzurro, tra il 1993 e il 1999, dopo la gioventù trascorsa in Sudafrica, in Italia era approdato a L’Aquila. Poi i quattro scudetti con il Milan. Infine gli Harlequins, il Calvisano, il Bologna, la Roma, l’Alghero, la Leonessa dove conobbe Lynn Howells che lo portò con sé a Edimburgo e poi a Doncaster, in Inghilterra. E ancora: la Scozia, il Canada, il Portogallo.

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