Dal libro “Una meta dopo l’altra – Della vita e del rugby”, Limina, scritto nel 2012 da Marco Bollesan con Gabriele Remaggi, anche lui genovese, un pilone laureato in lettere tristemente scomparso nel 2015. Il libro, autobiografico, mette in prosa la storia e i racconti del capitano azzurro. Qui ne pubblichiamo uno stralcio.
di Marco Bollesan (con Gabriele Remaggi)
Il 1963 è stato un anno felice. Con l’Italsider torniamo in serie A e la Nazionale maggiore mi chiama per la prima volta […], Avevo giocato solo due partite internazionali fino a quel momento, con l’Under 19 a Chambery sconfitta secca, 30-0, contro la Francia, e poi due mesi prima di Grenoble, con l’Under 23 contro la Spagna, vittoria 22-3. Quindi la chiamata di Del Bono e Invernici fece scalpore, creò polemiche, ma Bellinazzo, Di Zitti e Luise erano infortunati e allora i selezionatori chiamarono due pivelli come me e Degli Antoni, ché tanto erano sicuri di perdere, erano sicuri che sarebbe arrivata la solita batosta. E invece siamo arrivati a tanto così dal battere una Francia vera, grande, pericolosa, ricca di giocatori che sono entrati nella storia del rugby francese e non solo. Venivano dal Grande Slam e l’anno dopo vinsero i test match in Sudafrica. Gente come Boniface, Albaladejo, Dupuy, Darrouy. Per fermarmi mi avrebbero dovuto sparare, dicevo, e non era per il vino, ma per la voglia di combattere contro i più bravi, e quelli, i francesi non ci hanno messo mica tanto a spararmi. Se n’è incaricato Michel Crauste, quello soprannominato Le Mongol, un altro dei grandi di Francia. Sette minuti, un pugno dritto al volto che mi ha aperto il sopracciglio come un salvadanaio, perché ero già andato in fuorigioco due volte, in due touche, con la palla contesa. Che a quel tempo le touche erano un po’ bestiali. Non c’era mica l’ascensore come oggi. E non c’era neanche la distanza da tenere tra le due linee per cui era una roba piuttosto feroce, in cui volava di tutto. Si saltava da soli e ci si doveva proteggere e sapere anche aggredire. Io lo facevo, e due touche e due fuorigioco e quello lì Le Mongol, che pam, mi spara questo colpo sul volto. Sangue dappertutto, ma si sa che chi fa il gioco sporco lo fa suo rischio e pericolo. Perciò non è che mi sono impressionato più di tanto. Ero fuori a farmi fasciare. Sembravo un maraja, con quel turbante, ed ero pronto a rientrare perché non sarei mai uscito per una cosa del genere. Per me e per la squadra perché allora sostituzioni non ce n’erano. E non avrei mai lasciato l’Italia in quattordici contro quelli lì. Fatto sta che a Del Bono, ché se non ricordo male Invernici si era dato malato, anche lui certo della disfatta (salvo poi essere pronto a tutti gli onori dopo), dissi “Questi picchiano come fabbri cosa devo fare?” “E tu ridagliele”. Oh, io non mi faccio mica ripetere le cose due volte è così quando ne ho avuto l’occasione, a Le Mongol, ho restituito quello che mi aveva dato, e l’ho beccato dritto sul naso: va bene insegnare l’educazione, ma certe cose le so fare anch’io, caro Crauste, pensavo, e fortuna che viene anche da Lourdes.
La formazione azzurra che sfidò la Francia a Genoble nel 1963. Marco Bollesan è il quarto in pedi da sinistra (archivio Allrugby)
E correvo. Correvo come un matto, placcavo tutto quello che potevo e anche qualcosa di più. In mischia chiusa non mi facevano lavorare, i vecchi di quella squadra. Mi appoggiavo per spingere, e Lanfranchi che era anche il capitano, e Piccinini, le due seconde linee mi dicevano “Bocia, che fai, non spingere, ci pensiamo noi, tu pensa a correre e a buttare giù questi qua. In quella partita fummo davanti fino a pochi minuti dalla fine – dopo che il primo tempo si era chiuso sul 6-3 per loro – quando Darrouy fece meta alla bandierina. Era il pareggio. Durante la preparazione del calcio di trasformazione pensavo che non l’avrebbe messa dentro. E invece andò in mezzo ai pali: partita persa. Dedieu si chiamava quello che centrò i pali, e chissà se grazie a quel nome qualche divinità lo ha aiutato. Era anche Pasqua e divenne la Malapasqua. Negli spogliatoi però poi si presentò proprio lui, Crauste. Venne da me, a stringermi la mano. “Sei stato bravo, complimenti, hai capito la lezione. Tieni la mia maglia”. Io, impacciato, rintronato dalle botte, feci per dargli la mia, tutta lacera, ma mi fermò. “No, so che eri all’esordio. La prima maglia in Nazionale è troppo importante. Tienila. Sei stato bravo”. “Belin, credevo che fossi una merda…”, ma questo non gliel’ho detto.