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I febbrai gelidi, il lamento delle cornamuse, la pelliccia di chinchilla e lo spericolato cappellino di paglia verde di Sua Maestà Elisabetta II, il pilone inglese leggermente appesantito, la “chanson de geste” che tornava come un refrain commosso, l’erba di Murrayfield spazzata dal vento freddo delle Highlands, il deposito delle locomotive di Cardiff e lì accanto il popolo gallese che canta Land of My Fathers, i gemelli d’oro con inciso un piccolo ovale messi in palio il giorno della Mala Pasqua di Grenoble, la meta in mezzo ai pali a Twickenham quando lo chiamarono nel Resto d’Europa (European Barbarians?) per affrontare l’antico e nobile Rosslyn Park.

Una lunga cantata per suoni, immagini e per voce solista, quella di Paolo Rosi, 100 anni il 20 aprile che per un poeta era il mese più crudele. In realtà è stato generoso perché ci ha dato Paolo che ha lasciato segni profondi, indelebili, diversi da quanto oggi è stato imposto da un’isteria mista a interesse. Paolo stappa con noi l’ennesima bottiglia di bollicine, versa due dita di whisky e lo allunga con un po’ d’acqua, accende una sigaretta, si concede con gli amici un’altra di quelle serate che insieme a lui abbiamo vissuto intorno al mondo quando il momento dei ricordi chiudeva una giornata di lavoro, di impegno e lui era sempre inappuntabile. E in quelle parentesi, che facevano breccia verso il cuore della notte, poteva trovar posto di tutto: i tempi spensierati alla Rugby Roma, gli anni in azzurro, il concorso per entrare in Rai (tra i candidati anche un giovane Umberto Eco e il filosofo Gianni Vattimo: davvero altri tempi…), il suo primo volo transoceanico per Benvenuti-Griffith (elefanti che barrivano mentre al vecchio Madison Square Garden si sgomberava il circo per far posto al ring), l’impennarsi della sua voce quando Venanzio Ortis uscì dal nulla sulla collina praghese di Strahov per infilare Ryffel e Fedotkin o i suoi crescendo – “Ha vinto, ha vinto, ha vinto” – per Pietro Mennea e la sua rimonta a occhi spiritati a Mosca 1980 e “Cova, Cova, Cova, Cova”, tre anni dopo a Helsinki: quel finale prevedeva solo la scansione di un nome, breve e perfetto.

Paolo commentava con ordine, senza esagerare nei toni o nell’affollarsi delle parole, senza divagare (se c’era un tema, su quello si doveva puntare), poggiando sul suo patrimonio di vecchio giocatore e di innamorato degli sport che aveva scelto con affetto profondo e su un repertorio di aggettivi e di immagini che mai era iperbolico o forzato o rozzamente retorico. Paolo aveva un dono: lo stile.

Tanti di noi gli devono essere riconoscenti: fu lui a convincere la Rai ad aprire lo scrigno in bianco e nero del 5 Nazioni, a rivelare un giardino delle delizie che non avremmo mai pensato di poter frequentare. Quando l‘Italia vi ebbe accesso, Paolo non c’era più da tre anni.

Una foto, anche quella in bianco e nero, può essere simbolo e significato di una vita: blocca la sua immagine in corsa, all’Olimpico, per un’Italia-Francia dal risultato severo. Aveva festeggiato trent’anni quattro giorni prima ed era la sua ultima partita in azzurro.

Nella foto di apertura, Paolo Rosi, sul lato sinistro dell’immagine, difende insieme a Pietro Stievano nella finale di Coppa Europa del 1954, contro la Francia, all’Olimpico di Roma (all’epoca “Stadio dei Centomila”). Il francese con il pallone è Roger Martine in sostegno Maurice Prat e Gérard Murillo (Foto Archivio Tognetti/Allrugby)

A destra, nel testo, la copertina del libro di Federico Meda dedicato a Paolo Rosi (Absolutely Free Editore) 

Qui sotto una gallery di immagini di Rosi telecronista e giocatore, clicca sulle foto per ingrandirle 

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