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C’è un aneddoto che gira nel mondo della finanza in America: “a un party organizzato da un miliardario a Shelter Island, nello stato di New York, Kurt Vonnegut informa il suo amico Joseph Heller che il padrone di casa, un gestore di fondi speculativi, ha guadagnato in un giorno solo più soldi di quanti lui ne abbia incassati in tanti anni con “Catch 22” (Comma 22). Questa la risposta di Heller: “Si ma io ho qualcosa che lui non avrà mai: abbastanza”.

Centoventisette caps con l’Inghilterra, oltre 300 con i Leicester Tigers, tre successi nella Premiership, un Grande Slam nel Sei Nazioni 2016, Ben Youngs è appunto uno di quegli sportivi che non conoscono la parola “abbastanza”: a dicembre 2022 ha firmato con il club per la diciannovesima stagione consecutiva.

Questa è l’intervista con il giocatore pubblicata su Allrugby numero 165, a gennaio 2022

“Ero a casa, quest’estate  (2021, ndr) – racconta -, mancava un mese abbondante alla ripresa degli allenamenti. Ho pensato che avevo ancora molto da dare sul campo di rugby, che c’erano parecchi aspetti che volevo migliorare. Ho scritto queste cose su un quaderno, ho chiamato i miei allenatori, i preparatori, e ho detto: “voglio fare questo e questo”, abbiamo discusso come arrivare a quegli obiettivi, come lavorare per portare il mio gioco a un altro livello e, tre settimane prima del raduno con i Tigers, ho cominciato ad allenarmi, una specie di anticipo della preparazione estiva. Volevo arrivare all’inizio di stagione più in forma che mai, più forte di sempre”.

Da dove viene questa motivazione, questa voglia estrema di crescere e crescere ancora – gli chiediamo -, a trentun anni, dopo essere stato il più giovane a esordire con la maglia dei Tigers, a diciassette anni, nel 2007 contro Bristol?

“É qualcosa che hai dentro – spiega -. Quando pensi di non aver raggiunto appieno il tuo potenziale. Ho scritto quello che sentivo, le emozioni che mi spingevano. Ho cercato di capire di cosa avevo bisogno. E poi ho cominciato a lavorare”.

Insomma quando Diego Dominguez, in un podcast di Allrugby, ha ribadito che i giocatori di rugby di alto livello sono persone speciali, forse si riferiva proprio a questo fuoco, a questo desiderio che spinge i migliori di loro a spostare continuamente più avanti il traguardo, a non accontentarsi mai di quello che per altri sarebbe “abbastanza” o “quasi”.

Ben Youngs contro il Giappone a Nizza, lo scorso 17 settembre. (foto Michael Steele-World Rugby/World Rugby via Getty Images)

A novembre (2021, ndr), Eddie Jones in un paio di occasioni ha sostituito Youngs con Raffi Quirke, dei Sale Sharks, classe 2001, regalandogli una trentina abbondante di minuti tra il match con il Sudafrica e quello con l’Australia. Nei Tigers, alle spalle del numero 9 titolare, cresce Jack Van Poortvliet, anche lui come Quirke del 2001. Youngs a vent’anni venne schierato titolare da Martin Johnson contro l’Australia a Brisbane e cinque mesi dopo fu “man of the match” sempre contro i Wallabies a Twickenham, in un match vinto dall’Inghilterra 35-18.

“Quando hai diciassette, diciotto, vent’anni – riflette il più giovane dei due fratelli Youngs (l’altro è Tom, ndr) -, ti esprimi con più istintività, pensi di meno. Quando cresci, crescono invece anche le tue aspettative, quelle della gente che ti sta intorno, conosci le conseguenze di quello che accade o può accadere sul campo e fuori. Insomma sei più consapevole e questo cambia anche il tuo approccio, non la tua passione”.

Ecco, qual è la componente di passione nel dna di un campione?

“La passione probabilmente è la stessa per tanti. Il punto è come la liberi, come la fai vivere, le motivazioni con cui la alimenti. Per me, la mia famiglia è una motivazione, la voglia di esprimere il mio potenziale, in qualche caso il desiderio di far ricredere certe persone rispetto all’idea che si sono fatte di me, queste sono le molle. Io questo desiderio ce l’avevo da ragazzo. A scuola non ero tanto bravo, magari in qualche momento mi sono sentito anche solo. Sul campo invece ero rilassato, ero a mio agio, una sensazione che avevo dentro. Poi cresci, raggiungi dei traguardi, ne vuoi raggiungere altri, hai vinto un trofeo, ma non ti accontenti, perché c’è sempre qualche altro successo cui vuoi arrivare. Perché vuoi mantenere il tuo posto davanti alla sfida dei più giovani. È qualcosa che è difficile spiegare, viene dal di dentro, ce l’hai nel sangue”.

Allora proviamo a spiegare un’altra cosa: per due stagioni di Premiership consecutive Tigers al penultimo posto (2019 e 2020), una al sesto (2021), e quest’anno nove successi su nove in altrettante partite finora disputate. C’è un segreto, c’è una ricetta per un cambio così radicale di risultati?

“Le cose, da quando è arrivato Steve (Borthwick, estate 2020, ndr), sono decisamente cambiate: ha portato chiarezza di obiettivi, di standard, di lavoro, in tutti i singoli aspetti della vita del club, e ha coinvolto tutti quanti, dal primo giocatore all’ultimo membro dello staff. Non c’è un singolo ambito che non abbia vissuto questa trasformazione, dal settore medico al catering, ai giardinieri. Ora c’è una visione chiara che ha generato un grande spirito di gruppo (“comraderie” lo chiama, ndr), tutti spingono nella stessa direzione rendendo l’ambiente piacevole. Chiarezza, visione, coesione: sono questi i segreti di questo momento. Quando cominci a perdere troppe partite, entri in una spirale negativa, la gente si abitua, gli standard si abbassano, finisci per accettare comportamenti meno accurati, tutto diventa più difficile”.

Sul Grande Slam: “è un traguardo difficilissimo. Noi lo abbiamo conquistato due volte negli ultimi vent’anni. Se la domanda è: l’Inghilterra per numeri, tradizione, forza intrinseca del suo rugby avrebbe dovuto conquistarne di più?, la risposta è certamente sì. Ma la gente non realizza quanto è difficile vincere tutte le partite. Dipende dal calendario, da quante ne giochi in trasferta, dall’ordine degli incontri, perché magari un avversario lo affronti in un momento particolare, mentre un mese dopo sono cambiate le cose. Per tutti questi motivi il Grande Slam è un traguardo così speciale. Perché lo conquistano in pochi”.

Su Antoine Dupont: “mi piace moltissimo. È un ragazzo che in ogni partita può avere più di un momento decisivo. Lo guardo e cerco di imparare da lui”.

Forse all’inizio ha imparato lui da te…

“Può darsi, ma ora mi piace molto vederlo giocare. Non quando me lo trovo contro, s’intende…”.

Hai giocato con alcuni grandi numeri 10: Jonny Wilkinson, George Ford, Owen Farrell, Marcus Smith nell’Inghilterra: come si costruisce una partnership affiatata e duratura nel tempo?

“Con tanto lavoro, soprattutto fuori dal campo. Studio al video, analisi. Devi sempre cercare di sapere cosa farà l’altro, come aiutarlo, soprattutto quando c’è un imprevisto. Devi lavorare finché l’intesa non diventa istinto. Non è facile”.

C’è molta curiosità intorno a Marcus Smith, cosa dobbiamo aspettarci da un giocatore così?

“Con la palla in mano è una minaccia costante. E questo è un punto di forza fondamentale, perché tiene in apprensione le difese e può sempre creare un movimento improvviso. Certo il suo gioco, come numero 10, contempla anche altre caratteristiche, ma quella fondamentale è la capacità di attaccare col pallone ed è una base di partenza molto, molto importante”.

Ben (a sinistra) e Tom Youngs con il padre Nick, 6 caps con l’Inghilterra fra il 1983 e il 1984. I tre insieme detengono un raro primato: tutti e tre hanno battuto la Nuova Zelanda con la maglia della nazionale inglese

L’anno pari prevede la trasferta dell’Inghilterra a Roma, dove tu nel 2020 hai festeggiato il tuo centesimo cap, solo Jason Leonard prima di te aveva raggiunto quel traguardo.

“La trasferta a Roma è un momento che amo, è un viaggio che anche la mia famiglia intraprendeva sempre volentieri. Me la ricordo bene la partita del mio centesimo cap, segnai anche due mete”.

Insomma si viene a Roma in gita di piacere…

“No, perché quella volta, nel 2020, alla fine del primo tempo stavamo solo 10-5 per noi (finale 34-5, ndr). Penso che la differenza contro l’Italia la faccia spesso la panchina, l’ultima mezzora, quando noi possiamo sfruttare la profondità della rosa e mettere giocatori freschi che mantengono alta l’intensità del gioco. La gente guarda il punteggio e pensa che le partite contro di voi siano facili, ma i risultati spesso nascondono la durezza di quei match”.

Hai avuto anche molti compagni di squadra italiani: Castro, Ghiraldini, Michele Rizzo, Robert Barbieri, per citare solo i più noti…

“Castro… grande personaggio, grande passione in campo, grande carattere e cuore, idem Michele Rizzo. Ragazzi sempre disponibili, sempre pronti a fare gruppo, a dare una mano al collettivo”..

 

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