Negli annuari campeggia una data, il 18 maggio 1924, un luogo (Colombes) e una partita, Francia-Usa, che di solito viene considerata una finale, più o meno come capita per Brasile-Uruguay, match decisivo del Mondiale di calcio del 1950, quello della Gran Disgrazia brasilera. In realtà, furono i 90’ (su richiesta degli americani si giocò 45’ per tempo) che decidevano il gironcino che alle Olimpiadi 1924 assegnava le medaglie: la terza squadra, tagliata fuori, era la Romania. Visto che non c’è nessuna suspense da salvaguardare, diciamo subito che finì 17-3. Per gli Usa. Punto esclamativo.
L’ultima volta del rugby ai Giochi, prima della sua riesumazione del 2016 nella versione Seven, l’ha raccontata Mark Ryan in un libro, “Try for the Gold”, edito ormai quasi quindici anni fa dall’American International Media di White Plains, stato di New York, e nel quale c’è la storia delle medaglie conquistate dagli Usa nella pallovale. La ricostruzione è minuziosa, attenta, da “tutto il rugby minuto per minuto”. Già, nel 1920 e nel 1924 la televisione non era ancora nata e, se esistono filmati, si riducono a spezzoni più o meno accelerati. È la cronaca che costò al rugby la scomparsa dalle Olimpiadi.
Ryan, da buon americano, è piuttosto partigiano e così parte con il racconto del viaggio verso Colombes: strade sconnesse e polverose. «Quando arrivammo allo stadio, eravamo già stanchi», racconta uno dei giocatori, che per la maggior parte venivano da Stanford. Altre origini universitario-sportive: Santa Clara, Berkeley, San Mateo. Il rugby americano era californiano. L’unico ad aver esperienza europea era Alan Valentine, che dallo Swarthmore College aveva guadagnato accesso, anche rugbistico, a Oxford. L’Europa la conosceva, ma in un altro senso, Norman “Babe” Slater, leader e anima della squadra che già aveva vinto ad Anversa 1920: dopo l’intervento americano del ’17, aveva servito in Fiandra e in Belgio nelle ambulanze, proprio come un altro giovanotto che si ritrovò nella ritirata di Caporetto e che dall’esperienza trasse un libro piuttosto interessante: Ernest Hemingway.
La formazione Usa (foto IOC)
A Colombes, il pieno: 40.000 per l’inevitabile vittoria della Francia sugli Yanks, dati sconfitti per 20 punti. Eccitazione, vino bianco e nero, champagne, la Marsigliese suonata dalla banda della fanteria coloniale e cantata in possente coro. Al centro della tribuna, il barone Pierre Fredy de Coubertin, risuscitatore dell’antico spirito della Grecia pre-classica e classica ma anche anglofilo e così amante del rugby. Chissà come si sarà trovato in quel calderone bollente di nazionalismo.
Francia fortissima: la stella è Adolphe Jaureguy, il solito veltro elegante e rapidissimo, quattro mete alla Romania e, qualche mese prima, a Twickenham, capace di mettere in ambasce l’Inghilterra. Non c’è solo Jaureguy: estremo e capitano è Felix Lasserre, pilota sugli Spad durante la guerra, e in seconda linea opera Marcel Lubin, tornato dal fronte senza un occhio, uno dei ciclopi di Francia-Scozia, la prima partita giocata dopo la Grande Guerra. Al 5’ i francesi perdono palla e su quell’ovale che rotola sul prato si avventa Linn Farish: volata e meta. Stati Uniti avanti 3-0. Tre minuti dopo la giornata imbocca il suo senso e non lo abbandonerà più: William Rogers detto “Lefty” rifila a Jaureguy uno di quei placcaggi che fanno tremare i denti in bocca. Dalle tribune cominciano a rumoreggiare e quelli con il gallo sul cuore a picchiare come fabbri.
Jaureguy si rialza ma è per poco: il secondo atterramento – per il conteggio finale – arriva poco dopo quando, in combinata, Valentine, Slater e de Groot lo fanno volare sulla pista, quella che di lì a meno di due mesi ospiterà le meraviglie di Eric Liddell, Paavo Nurmi, Harold Abrahams. Scosso, sanguinante da un labbro, portato via «come un sacco di patate», ricorderà con poca generosità Charlie Doe. I francesi si incazzano, continuano a menar cazzotti (Lubin si distingue…) e gli americani segnano con Jack Patrick (due placcaggi evitati, ma la leggenda dice che ne eluse cinque) e “convertono”: 8-0 e non è ancora il quarto d’ora. Il resto è un caleidoscopio di gesti, di suoni, di fatti.
L’articolo completo è pubblicato sul numero 193 di Allrugby abbonati qui per leggere tutta la rivista e la versione integrale del racconto di Giorgio Cimbrico.
Nella foto di apertura un momento del match del 1924 tra Francia e Usa (foto IOC)