vai al contenuto principale

Il faccione di Chester Williams sorride da ogni angolo dell’aeroporto di Città del Capo, Waiting’s over!, l’Attesa è finita!, urla dai manifesti formato gigante che tappezzano lo scalo sotto alla Table Mountain. Suo malgrado è l’unico nero che frequenta il passatempo preferito dei bianchi e lo usano da biglietto da visita. La storia cambierà, eccome. La Coppa del Mondo degli slogan, da World in Union a One team, One country, fino al battesimo della Rainbow Nation. Eccoci di nuovo – dopo 28 anni e una rivoluzione copernicana del mondo ovale – l’attesa è finita. Ci risiamo, lo Stade de France di Parigi come l’Ellis Park di Johannesburg, la felce d’argento e lo springbok, i kiwis e il fiore di protea, il nero e il verdeoro, gli All Blacks e l’haka, gli Springboks multietnici e il loro rugby abrasivo. Si chiuderà il cerchio.

Da quel giorno, 24 giugno 1995, il mondo ovale non è più stato lo stesso. Proprio quel giorno lì, gli All Blacks non lo hanno ancora digerito. E così avvicinandosi alla resa dei conti stanno togliendo le ragnatele ai ricordi, riscrivono la storia di quella settimana di vigilia, un intero Paese ostile, lo sponsor che offre una taglia allo Springbok che in finale per primo fosse riuscito a stendere Jonah Lomu, il gigante che in 3 settimane da solo aveva cambiato le regole del gioco collettivo per antonomasia, prendendo tutto per sé il Mondiale. La chiamarono “Lomumania”, 4 mete agli inglesi in semifinale, Will Carling e Mike Catt caricati in spalla a far la fine degli zainetti, un uomo solo al comando e il resto è storia.

Come è andata a finire ce lo ha raccontato Clint Eastwood in Invictus, la sceneggiatura scritta da Nelson Mandela e Francois Pienaar, un drop supplementare per la storia, il rugby che dopo quel giorno farà un doppio salto mortale in avanti, gli “old Farts” (vecchi scoreggioni, così come li aveva definiti durante la Coppa del Mondo il capitano dell’Inghilterra Will Carling) dell’International Board che devono correre ai ripari, aprire al professionismo, perché Jonah Lomu e Rupert Murdoch, il magnate televisivo australiano che ha creato dal nulla una Lega autonoma mettendo sotto contratto la metà dei giocatori presenti in Sudafrica, hanno preso a spallate la loro ipocrisia.

Allo Stade de France ci sarà un giro di poker, All Blacks e Springboks si presentano al tavolo verde con un tris di assi Mondiali in mano, uno solo farà all in. La vigilia, oggi come allora: la stucchevole storia del razzismo al contrario (ma esiste il razzismo al contrario?) di Mbonambi verso Curry, le alchimie dentro alle pieghe del regolamento di Rassie Erasmus, la sbandierata sicurezza degli All Blacks, che poi tanto tranquilla non è se ogni occasione è buona per tirar fuori quella storia mai digerita… “Suzie e il caffè avvelenato”. Ci ha pensato il New Zealand Herald ad alimentare il ricordo, ha riproposto vecchie interviste, testimonianze dei presenti, perché in fondo 28 anni sono tanti e qualcuno poteva aver dimenticato. Sia mai.

Successe che Sir Brian Lochore, allora capo della delegazione in missione in Sudafrica, tornando in albergo da una cena ufficiale, la sera della vigilia della grande finale, trovò mezza squadra alle prese con una violentissima dissenteria. Laurie Mains il commissario tecnico, compreso. Lo staff si riunì, progettò di chiedere l’annullamento della finale, lì per lì si pensò a un’indigestione, ma nulla fu fatto trapelare per non concedere un vantaggio agli avversari. Sean Fitzpatrick, il leggendario capitano All Black, mai ha accennato al misfatto: vietato nascondersi dietro agli alibi, avrebbe detto poi. Fatto sta, la partita si giocò e solo qualche anno più tardi, Ed Morrison, l’arbitro, raccontò di aver notato come molti All Blacks fossero a pezzi. Mains non la mandò giù, ingaggiò un investigatore privato e scoprì che in quell’albergo era stata assunta due giorni prima una cameriera di colore, di cui si sarebbero poi perse le tracce, svanita nel nulla… Suzie e il caffè avvelenato. Sembra che una guardia del corpo di Nelson Mandela avesse confessato a orecchie indiscrete: “Operazione riuscita, li abbiamo avvelenati”.

Mandela e la Rainbow Nation. Jonah Lomu e Siya Kolisi. Il rugby che non è più lo stesso e i confini del pianeta ovale che restano immutabili. Benvenuti a Parigi, c’è da scrivere la fine di una storia lunga 28 anni.

Nella foto di Daniele Resini-Fotosportit, Joost Van der Westhuizen apre il pallone sotto lo sguardo di Mark Andrews (a sinistra. Gli All Blacks sono, d sinistra, Ian Jones, Craig Dowd e, a terra, Zinzan Brooke

Torna su