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Dopo Jpr, il medico volante, è toccato al Principe della calligrafia. Il giorno dell’Epifania Barry John era arrivato a 79 anni, da ieri non c’è più. Non sono rimasti molti quelli che l’hanno visto giocare dal vero. Per assaggiare, odorare qualcosa del magnifico gallese, necessario rifugiarsi sulle pagine scelte offerte da Youtube. Il tempo delle cassette è finito per sempre.

A questo punto non resta che provare a narrarlo: nell’estate del ’71 un gruppo di attivi evangelici batteva la campagna neozelandese per chiedere: “cosa fareste se Gesù tornasse sulla terra?” Abbandonando un attimo il governo delle pecore, delle vacche o la cura del frutteto, I laboriosi kiwi rispondevano: “Lo metteremmo all’ala e faremmo giocare Bryan Williams centro”. Poi arrivarono i Lions delle isole britanniche e la visione fu abbagliante, di sapore messianico: “Avevate ragione, Lui è proprio tornato. Gioca nei Lions, all’apertura”.

La leggenda di Barry John si alimenta di episodi tra blasfemia e irridente spirito britannico: si diceva che camminasse sulle acque (rivedere commossi, per l’ennesima, volta il filmato della sua meta all’Inghilterra, in una delle sue poche e pregiatissime annate, il ’67) e un giocatore scozzese, a fine match, si stupì che avesse chiesto permesso per far breccia in un capannello che intasava il corridoio degli spogliatoi di Murrayfield: “Pensavo che tu passassi attraverso i muri”.

Senza consistenza corporea, magico, divino, regale, elusivo. Se nel Galles da molti secoli c’è un Principe che riceve investitura al castello di Caernavon, lui condivideva quel titolo. O forse era il successore di re di antiche saghe, dai nomi impossibili. E l’origine del suo ritiro, a 27 anni, è da attribuire all’adorazione che sapeva scatenare: una ragazza gli si inginocchiò davanti quando lui entrò in banca per un’umanissima operazione di conto corrente. Era troppo e lo imbarazzava. Per fortuna (sua) nessuno pensò di alzargli un monumento, come avvenne per Gareth Edwards, che, bronzeo, allunga una palla bronzea in pieno St David’s Mall, il centro commerciale nel cuore di Cardiff.

Avendo vinto quel che al tempo si poteva vincere, avendo deciso di non andare al Nord per guadagnar soldi giocando a XIII, nella Rugby League, come aveva fatto Watkins, l’apertura che aveva tentato di rivaleggiare con lui, a Barry non rimaneva che dedicarsi alla propria vita. Non fu il solo a chiudere così, nel pieno della carriera. Il primo esempio che viene riesumato, in questi casi, è legato a Herb Elliott che decise di averne abbastanza a 25 anni: aveva vinto le Olimpiadi di Roma e i Giochi del Commonwealth, aveva firmato il record mondiale dei 1500, nessuno riusciva a mettergli il naso davanti. Stava diventando una noia e una nota industria di abbigliamento e scarpe gli aveva offerto un impiego come agente per lo Western Australia. Lo sport, una volta, andava così, non obbligava a vite eterne, a volte grottesche, in nome del denaro. La parte piacevole aveva il sopravvento, la calligrafia ne guadagnava. Il ricordo, anche.

Barry John aveva nome e cognome brevi e semplici, da titolo. In compenso veniva da un paese, da una contea, da un ginnasio che sono una giungla di consonanti cimmeriche: Cefneithin, Carmarthen, Gwendraeth, a nord di Llanelli che si pronuncia arrotando le elle in un’aspirata “c”. La stessa zona di Carwyn James, che chiamare commissario tecnico dopo quel che combinò in Nuova Zelanda nel ‘71 è riduttivo: poeta e condottiero è meglio. Di Barry è stato scritto: sembrava lento e non lo era perché apparteneva a un’altra dimensione spazio-temporale. Appariva e spariva.  Sul campo e nella vita. Lieve, ultimamente autore di commenti sullo Western Mail dopo lunghi anni di silenzio.

Con la maglia dei British & Irish Lions nel 1971 in Nuova Zelanda contro gli All Blacks (Hulton Archive/Getty Images

Prima delle partite, nella mensa del Millennium (prima Arms Park, ora Principality), accanto alla sala stampa, offrono un piatto che da un po’ di tempo è diventato di stile e di gusto orientale: una sensazione che vaga nell’aria insieme al profumo di curry e che guida, che spinge verso un tavolino. “Scusate, ma siete Barry John?” “Eh sì”, risponde un signore con tempie e basette bianche, un ventre non prominente ma avvertibile, posando la forchetta. Non è facile spiegare come sia avvenuto il riconoscimento. Per un caso, per un flusso, per un balenio di quegli occhi che sapevano vedere oltre lo specchio. Se i chili si sono sedimentati, il ciuffo non c’è più. “Un autografo?” “Ma certo”. “Sapete, ho già quello di Gareth Edwards e così il vostro andrà nella stessa pagina d’album”. “Bella idea”. E poi Barry firmò altri autografi perché in un gesto di generosità, di altruismo, chi aveva avuto il dono di riconoscere King Barry lo comunicò anche agli altri e la coda a quel tavolino fece presto a formarsi. Nessun problema: autografi per tutti. Per chi non arrivò in tempo, il resoconto fu crudele: “Sai chi c’era? Barry John”. “E dov’è andato?”. “Non lo so, qui non c’è più”.

Nel 1972, con George Best (a destra) cui Barry John veniva accomunato per la fantasia in campo (Getty Images)

E dopo qualche mese da quell’incontro ravvicinato, è arrivata la notizia che lui aveva deciso di sbarazzarsi dei memorabilia: il suo primo cap, conquistato nel ’66 contro l’Australia (“non ricordavo dove lo avevo messo e così ho telefonato alla mia ex-moglie e le ho domandato: Jan, dov’è il cap? Da qualche parte in solaio, mi ha risposto”), la maglia dei Lions, la giacca dei Lions con i quattro simboli araldici (la Rosa, i Leone, il Trifoglio, le Tre Piume), un cap del Cardiff concesso a chi con la maglia del club giocava 20 partite filate, l’ultima maglia del Galles, quella per il match con la Francia del ’72, da valutare come una bottiglia di Romanée Conti o di Petrus. Roba sceltissima, da amatore. “Sinceramente, non sapevo più cosa farmene, non volevo più pensare a dove l’avevo ficcata. Spero solo che gli acquirenti siano veri appassionati”. Qualche giorno la stessa scelta l’ha fatta Bob Beamon: l’oro olimpico che premiò quell’8,90 è stata valutata 441.000 dollari.

Barry ha lasciato numeri che oggi sembrano ridicoli: 25 partite con il Galles e 90 punti, tre Cinque Nazioni, un Grande Slam, cinque Triple Crown. Quattro test match con i Lions e 30 dei 48 punti messi a segno dai britannico-irlandesi in quel viaggio in Nuova Zelanda passato alla storia: due vittorie, un pari, una sconfitta con gli All Blacks. Serie vinta: mai più capitato. Fece diventare pazzo McCormick, l’estremo dei Neri, che non fu più convocato, obbligò a studi scientifici sulla sua capacità di calciare, impose le prime analisi con l’uso del rallentatore. Dove e come passava? I risultati non sono mai stati pubblicati. Capita per quelli visitati dal Genio della Lampada. E così, quando si parla di lui, sembra di parlare di un fatato personaggio degno della saga del Signore degli Anelli, di un antico eroe. Chi ha avuto fortuna, lo ha incrociato. Non capiterà più.

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