vai al contenuto principale

Per più di dieci anni Michele Colosio ha allenato in Francia (Racing 92, La Rochelle, Bordeaux). Oggi è il nuovo responsabile della preparazione atletica dell’Italia.  Quarantasei anni, bresciano, Allrugby lo aveva intervistato a fine del 2020, chiedendogli di spiegarci le differenze tra noi e i francesi, in termini di volume di lavoro, di allenamento fisico e, in conseguenza di tutto ciò, di qualità di gioco.

All’epoca, allenatore della Nazionale era Franco Smith, il quale pretendeva una squadra fisicamente più preparata, ovvero un gruppo capace di esprimere più volume di gioco, più azioni, più velocità, in una parola, più intensità, sia in allenamento che al cospetto degli avversari.

Ecco come Colosio affrontava all’epoca il tema “intensità e performance”.

“Il dibattito è antico quasi quanto quello dell’uovo e della gallina – spiegava tre anni fa  il trequarti centro della Leonessa dei primi anni Duemila – perché intensità è tutto e niente, bisogna insomma definire bene l’argomento. Non basta avere una squadra più allenata, più forte fisicamente, dobbiamo capire anche come incanalare questa forza nel gioco, sul campo. Ad ogni modo, penso che, sì, l’approccio di Smith sia corretto, perché a parità di livello tecnico e tattico, la squadra capace di mantenere più a lungo certi parametri e certi standard, alla fine, ha più probabilità di vincere. Anche se l’avversario magari è leggermente superiore dal punto di vista della qualità dei singoli e del collettivo”.

Di vere, o presunte, carenze atletiche dei giocatori italiani si parla però da più di mezzo secolo, come testimonia l’articolo di Luciano Ravagnani, scritto nel 1971, che pubblichiamo in questo numero. È un dibattito ancora valido o comincia ad essere stantio?

“È un dibattito che va messo dentro al gioco. Nel senso che l’obiettivo è sempre quello di creare un disequilibrio tra attacco e difesa, in modo che tu possa vincere il duello con il tuo avversario diretto. Se una squadra ha giocatori più esplosivi, più veloci, più potenti e questo li mette in grado di esprimere meglio le loro qualità, direi che è a buon punto…, stiamo parlando delle basi del rugby”.

Niente di nuovo quindi nel pianeta ovale?

“Preparare i giocatori perché possano esprimere la loro qualità a ritmo e intensità elevati. Questo è il punto numero uno. Una volta si ragionava più che altro sul tempo effettivo. Si valutava la performance in base al tempo in cui la palla rimaneva in gioco. Più si saliva di livello, più il tempo effettivo era alto, 40/50 minuti. Oggi si misura quello che succede in quei 40/50 minuti: quante azioni sei riuscito a fare, a che velocità, quali sono stati i tempi del riposizionamento dei giocatori, difensori o sostegni al portatore di palla, quanto tempo sei rimasto a terra dopo un placcaggio, quanto impiega il pallone a uscire da una ruck. In quella stessa frazione di tempo, cerchiamo di mettere più potenza, più forza, più velocità. Diciamo che rispetto a una volta il ragionamento si è evoluto”.

Possiamo spiegare come?

“Banalmente posso dire che un’ala una volta ingaggiava tre o quattro duelli a partita e contestava tre o quattro palloni in aria, oggi il suo contributo al gioco deve essere molto più alto, senza però che calino le sue punte di velocità e di esplosività. In una partita in cui ci sono più di 200 ruck gli avanti possono essere impegnati anche in 80/100 azioni ciascuno, dieci anni fa erano la metà. Se dopo i primi sessanta minuti, il tuo apporto cala, i tempi di arrivo nel raggruppamento e di riposizionamento dopo un placcaggio raddoppiano, è chiaro che la squadra capace di mantenere lo stesso livello fino al fischio finale ha molte più probabilità di vincere rispetto a quella i cui movimento sul campo rallentano. Noi abbiamo perso in Challenge Cup contro il Bristol (37-20 il 25 settembre, 2020, ndr) un match in cui il tempo effettivo è stato di 50’, nel corso dei quali ci sono stati giocatori che hanno percorso 10 km e fatto più di 20 placcaggi a testa. Se al ventesimo placcaggio la tua energia si abbassa, tutto diventa più difficile”.

Come si prepara, dunque, questa maggiore intensità?

“Ecco, questa è un’altra questione, perché per innescare e valutare l’intensità, per allenarla, dobbiamo poterla misurare e analizzare, come media e come volume di lavoro. Per questo servono parametri e strumenti capaci di dirci a che velocità si spostano i giocatori, quale potenza esprimono al momento di andare a contatto, quali sono i tempi di reazione e riposizionamento. In modo da poterli confrontare e valutare per capire se effettivamente il lavoro è stato eseguito al massimo. L’intensità e la velocità dell’allenamento devono essere uguali o superiori a quelle della partita. Ma ovviamente non puoi giocare tre incontri alla settimana, quindi devi applicare una metodologia che ti permetta di dosare questa intensità con azioni e sequenze in velocità, per periodi prolungati, seguiti da brevi fasi di recupero. Ma qui entra in gioco, ovviamente, anche la qualità, perché se dopo due passaggi la palla cade, e tutti si devono fermare, il ritmo inevitabilmente cala. In più devi cercare di avere un bacino di giocatori con caratteristiche abbastanza uniformi, perché se ce ne sono solo due o tre che possono sostenere il lavoro a quella velocità il metodo non funziona”.

Ma non è sempre stato così?

“Diciamo che una volta l’allenatore andava in campo, spiegava quello che voleva fare, si provavano alcune azioni, poi ci si fermava ad analizzare come erano stati eseguiti i movimenti, tutto avveniva in modo più lento, la partita era un salto di qualità enorme in termini di ritmo e velocità. Oggi si cerca di replicare già in settimana l’intensità dei gesti del match”.

Devi avere anche un numero sufficiente di giocatori per poterti allenare a quella maniera…

“Certo, noi a Bordeaux in campo ne abbiamo sempre una media di trenta/trentadue. Altrimenti non puoi fare quel lavoro. Ma devi anche avere lo staff adeguato a quelle esigenze: ci vogliono preparatori, analisti… Noi siamo in sei, compreso me che sono il coordinatore di tutta l’attività fisico-atletica: c’è un addetto ai dati, che rileva lo stato di forma e di salute dei giocatori, un addetto al recupero degli infortunati, uno che lavora con i più giovani, un addetto alla sala pesi, un factotum disponibile dove c’è bisogno e poi ci si sono io che sono il capo. Per fare le cose bene ci vogliono anche le risorse, è chiaro”.

Tutto deve essere ben programmato, pare di capire. L’allenamento è una centrifuga che sposa ritmo, precisione di esecuzione, riposizionamenti… tutto al massimo della velocità.

“Si più o meno è così. Le qualità fisiche supportano la tecnica e viceversa. Perché quando sei stanco la precisione dei gesti non è quella che serve, i passaggi sono meno accurati, i sostegni più lontani. Ma se vuoi allenarti ad altissimo ritmo non puoi nemmeno sbagliare, sennò ogni momento c’è un’interruzione”.

A tutto questo anche un paese di grande tradizione ovale come la Francia è arrivato un po’ più tardi di altre nazioni…

“In Francia una volta si puntava molto sul gesto tecnico, poi se ti allenavi anche in palestra e mettevi su un po’ più di muscoli, tanto meglio. Il Sudafrica ha sempre privilegiato l’aspetto fisico, i suoi erano i giocatori più forti e più potenti espressi dai college e dalle province, da loro il rugby è sempre stato capacità di imporsi fisicamente. Anche gli anglosassoni tengono il fisico in grande conto, fisico e tecnica sono sempre andati di pari passo in Scozia, in Galles, in Irlanda e in Inghilterra”.

E in Italia?

“Penso che Georges Coste sia stato un precursore ai suoi tempi. L’Italia di quegli anni, quelli del grande Milan, era molto all’avanguardia per quanto riguarda la preparazione fisica e Coste puntava molto sull’intensità del gioco e i tempi del riposizionamento in difesa. Così come Berbizier: lui pure un fanatico dell’intensità, voleva che i giocatori fossero in grado di esprimere nell’arco di tutta la partita. Ma anche Kirwan aveva idee che all’epoca sembravano fantascienza. Diceva: dalle 9.30 alle 9.45 facciamo questo, e dalle 9.47 alle 9.52 quest’altro. Quella compartimentazione ci sembrava assurda. Ma ora tutti lavorano così, con sessioni programmate nel dettaglio, durante le quali la velocità deve essere massima, non ci devono essere interruzioni, ognuno deve avere chiaro come muoversi e cosa fare per poterlo fare al meglio”.

Dunque cambia anche il modo di allenarsi.

“Cambia il modo di affrontare l’allenamento, il modo di prepararlo. Dobbiamo educare i giocatori a un certo tipo di lavoro perché sia efficace, perché solleciti la forza che serve, non altro. Gli strumenti ci servono per l’analisi, ma è un processo che richiede tempo, non puoi andare da zero a cento in una settimana”.

Benvenuti nel rugby del terzo millennio. E che la forza sia con voi.

Nella foto del titolo Tommaso Menoncello (a sinistra) e Edoardo Padovani, contro l’Irlanda, lo scorso Sei Nazioni all’Olimpico. (Foto Media Bin Fir)

Più sotto, Michele Colosio con i colori del Bordeaux-Begles

Torna su