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Duhan Van der Merwe: segni particolari, bellissimo. Fosse nato ai tempi di Leni Riefenstahl, la parte di Sigfrido non gliela avrebbe tolta nessuno. Naso leggermente aquilino, capelli biondi pettinati all’indietro, alto e possente (1,93×106), veloce, un asso a rompere i placcaggi o a evitarli. Un maxi-Mercurio, un’ala con le ali ai piedi: i 60 metri abbondanti corsi in linea retta a Murrayfield (seconda delle sue tre mete) sono più appassionanti dei 110 (percorsa l’intera area di meta e, a seguire, tutto il campo) di Pentasi Daquwaka in Stade-Racing che hanno scatenato il delirio dei “retaioli”. Bella, sì, ma la difesa del Racing dov’era?

Van der Merwe è uno scorridore senza paura: nella prima meta contro l’Inghilterra, dopo aver avuto palla da Huw Jones, decide di far da solo, contro due inglesi che stanno rimontando e due che lo braccano, che gli sono addosso.

Nella terza, l’uomo giusto al posto giusto, con la frequenza di corsa, giusta anche quella, per andare ad agganciare l’ovale offerto da Finn Russell, uno dei più bei kick pass visti da quando questo gesto è diventato abituale nel rugby union. La domanda è: sapeva l’ex-scalpellino che la palla sarebbe atterrata lì e con il rimbalzo perfetto per la raccolta? Finn è meno scorbutico di un tempo e magari risponderebbe volentieri al quesito.

Finn Russel, attenzione al suo gioco al piede (foto SRU)

I numeri e la media dicono che Duhan, 29 anni a giugno (solo i Gemelli offrono tipi così), nativo di George, Western Cape, è giunto alla 26a meta in 37 partite giocate con la maglia della Scozia, che lo ha reso eleggibile per permanenza, non per aver scovato radici più o meno profonde da parte di nonni o avi.

L’0,7 che si ottiene con una divisione, più o meno tre quarti di meta a match, lo proietta davanti a quel buonanima di Lomu, all’uomo-ghepardo Habana, a Campese, al folletto gallese Shane Williams. Julian Savea, 46 in 56, è davanti e Will Jordan sta percorrendo il cammino della perfezione: 31 test, 31 mete. Ma Duhan non un è un All Black e non gioca negli All Blacks.

La tripletta – o hat trick – del sudafricano di Scozia, che due mete agli inglesi aveva segnato anche l’anno scorso a Twickenham, sta aprendo, più che un dibattito, una constatazione. In questo rugby delle difese esasperate, oggetto di studi e di continui approfondimenti, può esserci ancora spazio per il battere e lo spalancarsi delle ali, un aspetto che può essere gradito a un pubblico che non deve essere necessariamente composto da esegeti, da raffinati analisti del drive, della ruck, della rush defence, etc etc.

In un tempo non lontano, prima che in Europa atterrassero i volanti figiani, quel compito spettava ai francesi, quelli del rugby champagne, del French flair. Ora di quello stile, di quelle bollicine è rimasto poco. A giudicare da quel che si è visto dentro lo scatolone chiuso di Lille, nulla. Molti chili, come in certe charcuterie di Lione. Dallo champagne passaggio al pinard, il vinaccio che veniva servito in trincea, prima dell’attacco, spesso con effetti catastrofici.

Lo spirito servito da Van der Merwe è di altra e alta qualità, un puro malto torbato delle isole o un buon vino dei vigneti delle sue parti. A Roma, attenti a quei due: Duhan e Finn.

nella foto del titolo (SRU) la meta alla bandierina di Van der Merwe contro l’Inghilterra

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