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La storia ha avuto JFK, il football e la cronaca nera hanno avuto OJ (Simpson), il calcio ha avuto e ha ancora CR7. Il rugby ha perduto JPR, tre iniziali per distinguerlo dall’altro Williams, JJ, del Galles dei tempi memorabili, delle invenzioni, delle lunghe corse, dei viaggi interminabili dall’altra parte del mondo, per tornarne con scalpi da appendere al posto d’onore.

John Peter Rhys, JPR, aveva capelli lunghi, a caschetto, basette cespugliose (chi non l’aveva a quel tempo e chi non teneva sollevato il colletto della maglia in robusto cotone?), calzettoni, come diceva Gianni Brera, alla cacaiola. Aveva anche una laurea in chirurgia, specializzazione in ortopedia. In quei magnifici pomeriggi di febbraio e marzo colorati solo di bianco e nero, Paolo Rosi non mancava mai di celebrare il medico che aveva rivoluzionato il ruolo di estremo: JPR aveva corsa superba e capacità slalomistiche, offerte con finte impercettibili. Era anche dannatamente forte e infatti nel suo curriculum figura anche una presenza da flanker.

Bill Beaumont, stessa generazione, ora sul trono mondiale, ha detto che il rugby ha perso un gigante. Un gigante e un testimone diretto e un protagonista di giornate memorabili. Era in campo il 27 gennaio 1973, a Cardiff, quando i Barbarians piegarono gli All Blacks e Gareth Edwards segnò la meta delle mete e un anno e mezzo prima, a Auckland, quel suo lungo drop portò al 14-14 che diede ai Lions di Carwyn James la vittoria nel tour, un evento memorabile che venne festeggiato, specie in Galles, con tavolate che invadevano le strade delle cittadine. “Ho messo meno tempo ad arrivare dalla Nuova Zelanda che a raggiungere il mio paese da Cardiff”, raccontava Edwards.

Per quel rugby che non prevedeva guadagni, JPR ha avuto una lunga vita: esordì nel 5 Nazioni prima ancora dei 20 anni e andò avanti sino al 1981, mettendo assieme 55 caps, tanti. Niente a che fare con Barry John, il principe riluttante. Nella parentesi degli anni Settanta, vinse tre volte il Torneo con tre Slam e in questo percorso si trasformò in arma letale contro l’Inghilterra: dieci incontri ravvicinati, dieci vittorie e cinque mete, galoppate da purosangue. Nello stesso periodo, i due tour vinti in casa degli All Blacks e degli Springboks. La serie di presenze, otto, venne interrotta da un infortunio che gli impedì di visitare anche l’Australia.

L’infortunio più grave non lo subì con una delle maglie rosse che segnarono la sua vita. Venne con il Bridgend, il suo club d’origine, quando il neozelandese John Ashworth gli assestò una terribile scarpata in faccia. Venne ricucito a bordo campo con trenta punti da suo padre, chirurgo, e tornò in campo per finire il match. Quella cicatrice divenne una specie di decorazione, il segno di una coraggiosa milizia.

È stato il protagonista di uno sport molto diverso da quello che stiamo vivendo. A 17 anni divenne campione britannico juniores di tennis battendo a Wimbledon – solo luoghi memorabili per lui – David Lloyd, fratello del marito di Chris Evert, John Lloyd. Essere proteiformi era un’entusiasmante normalità: Gareth Edwards andò sul podio con la 4×100 gallese ai Giochi del Commonwealth del 1970 a Edimburgo.

JPR scelse il rugby perché scorreva nelle sue vene di creatura di Cymru e perché, si racconta con un sorriso, era il gioco perfetto per chi aveva deciso di percorrere i sentieri e i misteri dell’ortopedia. È morto in fretta e in pace, dicono i famigliari. Non resta che cercare nel mare magno di Youtube o di rispolverare, con una carezza, qualche vecchia cassetta..

Nella foto PA Images via Getty Images, JPR Williams contro l’Inghilterra nel 1978 a Twickenham, a terra Phil Bennett placcato da John Scott, in sostegno accorrono Charlie Faulkner (a destra) e Graham Price 

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