Ci mancavano solo le minacce a Barnes e alla sua famiglia, dopo la finale tra Sudafrica e Nuova Zelanda, poi sono arrivate le proteste formali della federazione neozelandese a World Rugby, per l’arbitraggio del match che assegnato agli Springboks il titolo mondiale.. Rassie Erasmus, del resto, aveva fatto la sua parte nel 2021 in occasione del tour dei British & Lions in Sudafrica. La questione scotta e non sarà facile da dirimere. Ora interviene Nigel Owens, principe dei fischietti, e dice: “abolite il bunker, non ha risolto le controversie. Decisioni come l’espulsione definitiva di Sam Cane, nella finale, dovrebbero essere prese dall’arbitro, è lui che deve dirigere la gara. E io non avrei mai voluto delegare le scelte a due che sono lontani e non sono nemmeno arbitri internazionali”. Una volta era semplice: gli arbitri, quando i protagonisti decidevano di andare per le spicce, si giravano dall’altra parte. In cento anni di test match, ossia fino al 1975 (!) c’erano stati due espulsi in tutto nel rugby internazionale, entrambi neozelandesi, Cyril Brownlie nel 1924 (Inghilterra-Nuova Zelanda) e Colin Meads nel 1967 (Scozia-Nuova Zelanda). Solo in questo ultimo Mondiale ci sono stati 8 cartellini rossi e 56 gialli.
Come si è arrivati a ciò?
Il rugby è un gioco antico. Nato da quel Caos originario in cui il pallone aveva contorni informi e intorno al quale i membri di due squadre dal numero incerto di giocatori si accapigliavano senza regole e senza apparente disciplina. Era (ed è rimasto) un sport brutale, a tratti violento, in cui è permesso il placcaggio, gesto che esalta la forza e il coraggio, mentre il soccer (il calcio), dove si possono usare soltanto i piedi, a un certo punto nel corso della sua storia vietò anche il famigerato “hacking”, il calcio negli stinchi che in ogni partita mandava qualcuno all’ospedale. Per rendere il clima dell’epoca: quando l’”hacking” fu definitivamente bandito dai campi di calcio qualcuno si lamentò di uno sport ormai diventato “per francesi e signorine (!!)”.
Insomma il rugby aveva quest’aura di confronto fra pari, duro ma leale. Ed era accompagnato da simbologie e riti laici: il cap, che distingue chi ha giocato a livello internazionale, la cravatta, che mostra l’appartenenza al club, la maglia, i cui disegni sono spesso mutuati dall’araldica medievale. Su questi presupposti il gioco è rimasto amatoriale per centocinquant’anni, molto oltre tutte le altre discipline. Il professionismo è arrivato solo nel 1995 e fu una rivoluzione copernicana: soldi, televisioni, sponsor, ingaggi più o meno remunerativi. Con il professionismo gli atleti hanno potuto dedicarsi alla preparazione atletica a tempo pieno. Cambiano le loro strutture fisiche, oggi quanti sono i Jonah Lomu?
Cambia la velocità del gioco, aumentano gli scontri pericolosi. Per rendere il rugby uno sport globale, gradito al pubblico e alle televisioni si cerca di depotenziarne i rischi, di renderlo meno brutale. Si sfruttano i TMO e la televisione, i citing commissioner e adesso anche il bunker, quel consesso di giudici mantenuti volutamente ignoti che, in otto minuti di analisi video, possono decidere se l’espulsione di un atleta debba essere innalzata da temporanea a definitiva. Il problema è che il gioco, nella sua natura, resta quello che era in origine, atleti grandi e grossi che sul campo si affrontano in modi che non sono ammessi in nessun’altra disciplina. “Il rugby è a un bivio -ha detto Owens – nonostante tutti gli interventi e le punizioni comminate in questi anni non è cambiato il modo di placcare e continuiamo a vedere decisioni controverse, alcune severe, altre molto meno”.
Nigel Owens (foto di Davd Gibson)
Qualche dato
In una partita ci sono circa duecento punti di scontro, tra ruck e maul, e trecentocinquanta placcaggi, più o meno. È ragionevole pretendere che tutti questi impatti avvengano in modo corretto, senza che mai una spalla urti il mento, un braccio la testa o simili? Se riguardassimo alla moviola ogni azione, con una media di 400 scontri, urti, collisioni per match, basterebbe che il 5% di essi sia fuori regola per produrre non meno di 20 cartellini a partita. Esageriamo? Certo: la salvaguardia della salute dei giocatori. Assolutamente prioritaria. Ma un conto sono le cattiverie, le scorrettezze, i gesti compiuti per fa male. Altra cosa gli impatti fortuiti che in uno sport come il rugby non potranno mai essere eliminati.
Le polemiche sono state tantissime: metri di giudizio differenti su falli, mischie, interventi pericolosi e altro ancora. Nato come un gioco sporco e brutale il rugby per rendersi appetibile vorrebbe oggi cambiare la sua natura, diventare trasparente, limpido in ogni decisione anche per chi sta a casa, in poltrona. “Ma non può essere il TMO ad arbitrare la partita – dice ancora Owens -. I giudici migliori sono quelli in campo. Troppe opinioni fanno solo confusione”. Può il rugby diventare quello che non è mai stato? Può allargare i suoi confini continuando ad essere quello che era? Il prezzo in entrambi i casi, cambiare o rimanere come è nato, pare molto salato. La risposta rimbalza sui tavoli di World Rugby, e non solo.