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L’appello di Giorgio Terruzzi, durante il Mondiale, sul Corriere della Sera (“La coppa del Mondo contiene un monito: le stringhe sono lasse, tocca stringerle, serve correggerle, ripristinare una tradizione preziosa. Altrimenti ogni buon esempio, proprio del rugby, rischia di scivolare nella retorica, in un vanto risibile”), è mosso da un sentimento nobile, ma ormai, ahimè, malinconico, fuori dal contesto attuale.

Non c’è più alcun motivo per cui il rugby debba avere valori superiori agli altri sport. Li ha avuti, forse, finché in modo anacronistico e anche un po’ snob, ha difeso oltre ogni ragionevole data, il suo dilettantismo, l’amatorialità. Le altre discipline già da tempio immemorabile si erano convertite al denaro, il rugby difendeva in modo ipocrita la sua diversità.

Era un rugby primordiale, che gli anglosassoni avevano modellato nello spirito della loro società e delle loro scuole esclusive: scontri violenti, ma a fin di bene: io colpisco te, tu colpisci me, l’arbitro se vede si gira. Le cicatrici come simbolo della battaglia, da esibire nel terzo tempo, celebrazioni fra pari: vogliamo dimenticare?

“Uno sport di combattimento per atleti capaci di gestire ogni aggressività superflua. Ciò che i cultori dell’ovale rinfacciano con fierezza a quelli del calcio”, dice Terruzzi, un’aura di leggenda costruita intorno ad episodi non tutti da imitare. Tour come battaglie, e si infatti si chiamavano “campagne. Le partite di quella dei British & Irish Lions del 1974 in Sudafrica, con le regole di oggi, sarebbero finite con dieci espulsi per parte (nell’Italia di oggi con 45 squalifiche, perché in panchina si andava solo in 6…). Era un rugby che ci piaceva? Eccome se piaceva. Ci compiacevamo di raccontare che il rugbista non simula, incassa e restituisce senza paura. I Barbarians, le squadre a invito, un’epica senza pari.

Poi è arrivato il professionismo, sono arrivati i soldi, le tivvù, i procuratori. I giocatori vengono pagati, anche se meno dei protagonisti di altri sport. Il mondo è cambiato, tutto quanto e non sempre in meglio rispetto a quello che era. Perché il rugby dovrebbe essere esente da questa trasformazione?

Gli arbitri devono districarsi tra cento regole e mille decisioni, lo impongono le telecamere, l’analisi alla moviola, il pubblico ulula sulle tribune.  Non litiga, come quello del calcio, perché almeno questo di confine non è stato valicato. Ma ad ogni ruck, ad ogni placcaggio, sono mani che si alzano per richiamare l’attenzione dell’arbitro, per protestare, scene preordinate per influenzare le decisioni.

“Il peggio del repertorio calcistico intrufolato nei meccanismi del rugby. Un imbarbarimento in luogo di una nobilitazione. Vizi adottati in luogo di virtù consegnate”, scrive (e siamo d’accordo) il Corriere.

Ma perché non dovrebbe essere così? Gli interessi economici, non in tutti paesi ovviamente, sono ormai divenuti enormi. Gli All Blacks hanno venduto il 5% dei loro futuri incassi commerciali a un fondo di investimento non a un’associazione benefica di tifosi, per 100 milioni di euro, più o meno.

“Certo gli staff tecnici rimangono in tribuna. Nessun mister si permette quelle sceneggiate a bordo campo tipiche del pallone”. Anche su questo ci sarebbe da obiettare: l’allenatore di una delle due squadre che a Parigi si sono giocate la finale è stato squalificato per un anno per indebite pressioni sugli arbitri durante il tour dei Lions del 2021. Aveva usato Twitter invece che sbracciarsi davanti alla panchina. E Jonny Sexton ha beccato quattro settimane di sospensione per gli insulti a Jaco Peyper nel tunnel dopo finale tra Leinster e La Rochelle, la scorsa stagione.

Le squadre si difendono dallo spionaggio degli avversari, la stampa è ammessa alle sedute di allenamento per un quarto d’ora, una volta i giornalisti viaggiavano con i giocatori, oggi devono chiamare un call center per parlare con loro. Gli sponsor dettano le regole, il doping non è (quasi) mai stato sanzionato e soprattutto indagato a dovere. Decine di giocatori lamentano traumi e danni permanenti. Cosa stiamo cercando di difendere se non un’idea di rugby che non c’è più e forse non c’è mai stata?

Il rugby ci piace? Certo ci è sempre piaciuto e ci piace ancora, come ci piacevano i film western in cui tifavamo per i cow boy. Poi è arrivato “Soldato Blu” e abbiamo capito tante cose. Il che non vuol dire che “Sentieri selvaggi” o “Ombre Rosse” non ci piacciono più. Il rugby resta una grande, fantastico confronto sportivo, il palcoscenico per meravigliosi gesti tecnici e come tutte le attività è praticato da grandi uomini, ma anche da bruti e da imbroglioni.

Possiamo, certo, provare a difendere il rugby, a non fischiare quando si calcia ai pali, a non protestare come fanno calciatori. Perché vorremmo essere diversi, ovvio, ma siamo sempre più uguali.

Nella foto l’invito rivolto al pubblico di rispettare il calciatore, cosa sempre più disattesa negli stadi del mondiale francese

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