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Asterix e Obelix senza pozione magica, Macron a mascelle serrate, le vecchie facce da rugby che si avviano scuotendo il capo, la gente che fa rotta verso la stazione della Rer, una fermata dalla Gare du Nord: le Grand Combat è finito e St Denis, sepolcreto dei re di Francia, lo Stade de France è diventato una nuova Wounded Knee: seppellite il mio cuore sotto quel prato. Il giorno più triste dei Bleus fa appannare le lenti degli occhiali con montatura d’antan di Fabien Galthié che con gli Springboks aveva vissuto un’altra fregatura, fa luccicare gli occhi di Rassie Erasmus, il signore della lampada, ferma l’espressione di Antoine Dupont in un vuoto profondo. Se ventiquattro ore prima St Denis era stato il vasto studio per la stesura di un trattato (“come affrontare una fortezza in movimento”), ora, in un kantiano passaggio dalla “Critica della ragion pura” alla “Critica della ragion pratica”, quel che rimarrà scritto e inciso è “come combinare velocità e potenza e privilegiare la seconda alla prima”. Detto in parole semplici: come non far vedere alla Francia la propria metà campo, in un esercizio degno del più robusto dei boa constrictor. Istantanee che diventano categorie, canoni interpretativi: in ventiquattro ore St Denis (in Francia il luogo che possiede una cattedrale è una città e così St Denis non è Parigi) ha offerto del rugby tutte le rifrazioni del diamante: la battaglia, il balletto, la zuffa,, il rito profano, la sacra rappresentazione, la cassa armonica per i canti, la strategia pianificata, la necessità della tattica, l’improvvisazione: se il mercuriale Kolbe non avesse stoppato la trasformazione di Ramos come sarebbe andata a finire? E così con pena – ma anche con snobistica indifferenza – abbiamo pensato a quelli che sabato, mentre noi vedevamo la luce, guardavano Italia-Malta che una volta, quando il mondo non aveva indossato i panni dell’ipocrisia e del corretto a ogni costo, chiamavamo la partita d’allenamento contro i postelegrafonici di un paese, calcisticamente, di terza o quarta fascia. E mentre i francesi sedevano immoti sul prato, pensavamo anche che il meglio era già alle nostre spalle perché di più non è possibile pretendere ma qualcosa ci ha scosso, un richiamo antico, un rumore sordo che viene dalla terra: eliminando i condizionali, spazzando via i “mai dire mai”, i “se i ma” così di moda, così obbligati, Nuova Zelanda-Sudafrica, nel 200° anniversario della nascita del gioco, non sarà la finale del Mondiale o il remake di quel giorno a Johannesburg quando il migliore in campo fu Nelson Mandela. Sarà la “mano” per metter le mani sul quarto asso, ed è giusto che siano loro a disputarselo. Non è vero che il meglio è già alle nostre spalle.

 

Nella foto di David Ramos – World Rugby/World Rugby via Getty Images, Cheslin Kolbe placcato da Charles Ollivon

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