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Hanno atteso 28 anni per consumare la loro “revanche“, la vendetta, un piatto che a Parigi vorrebbero servire freddissimo. Da quel giorno di Durban, anno 1995, semifinale di una Coppa del Mondo intrisa di pathos e futuro, Francia e Sudafrica mai si sono più incrociate sul percorso tracciato da un tabellone Mondiale. L’occasione è ghiotta (domenica sera, ore 21), perché a Lione in questi giorni non si parlava d’altro, di quella sera fradicia di pioggia che Oltralpe ha ancora l’odore disgustoso del furto, di una meta fantasma vista da tutti ma non dal gallese Derek Bevan, l’arbitro a cui a fine torneo la Sarfu fece recapitare un orologio, regalo che lo mise in grande imbarazzo (“ma valeva solo 90 £ , non  era nemmeno il caso di regalarlo in beneficienza”, racconterà  nell’autobiografia data alle stampe a qualche anno distanza). Pierre Berbizier la storia dell’orologio la raccontò subito, ma sembrò solo la confessione di un uomo dominato dalla rabbia. Quella rabbia che durante la Coppa del Mondo di casa ha ripreso a covare in tutto il Paese sotto alla cenere del rancore.

King’s Park di Durban, semifinale, Francia, Sudafrica e l’uragano. Mezz’ora prima del match dall’Oceano Indiano arrivano nuvole che sanno di tempesta, la minaccia diventa diluvio, il tendone che fa de centro stampa fuori allo stadio viene evacuato su due piedi, un fiume in piena ha preso a correre tra i tavoli. Mezz’ora di finimondo, la partita è a rischio e il Paese Arcobaleno trattiene il fiato, perché sa che se l’incontro dovesse essere annullato il sogno si fermerebbe lì: il regolamento parla chiaro, alla finale avanzerebbe la squadra più virtuosa sotto al profilo della disciplina e durante il torneo i padroni di casa quella virtù l’hanno smarrita. Passa un’ora lunga l’eternità, Bevan entra una, due, tre volte in campo, corricchia nella melma, si ferma sotto ai pali, le prova tutte pur di salvare partita e credibilità della Coppa: «Avevo paura che alla prima mischia i due packs sprofondassero nel nulla», scriverà venti anni dopo. La foto rimane nella storia: cento donne nere, armate di scoponi, che spazzano via l’acqua del prato e provano a farla defluire lungo le touche. La tecnologia del dopo apartheid al servizio della causa.

Alla fine si gioca, il King’s Park trattiene il fiato, la battaglia nel fango è brutta e spigolosa, si va avanti punto a punto, una sola meta (di Kruger) e la lunga litania dei calci piazzati di Stransky e Lacroix. Si arriva sul filo di lana con la Francia capace di resistere e di non annegare nelle pozzanghere (19-15 per gli Springboks). Il King’s Park diventa mormorio, paura, fango e tenebre, la Francia avanza, avanza e arriva a un passo dalla sua finale. Anzi, ci mette due piedi dentro quando Abdelatif Benazzi si tuffa con il pallone in cassaforte su una linea di meta che non c’è più, cancellata dalle intemperie. Meta! Non meta. Non c’è ancora l’occhio infallibile del Tmo, a guardarla e riguardarla ai tanti replay in tv sembra impossibile non concedere la segnatura, Bevan ci pensa e non se la sente. Il King’s Park respira a pieni polmoni l’aria densa di umidità portata dal’Oceano. Il Sudafrica è in finale, la Francia si sente rapinata. La storia va avanti, l’orologio di Bevan gira, altrimenti quella sera il tempo si sarebbe fermato e non ci sarebbe stato Mandela travestito da Pienaar, Invictus, il Paese Arcobaleno, il Jumbo sopra a Ellis Park, lo springbok cucito e non strappato sulla maglia verdeoro.

Il tempo scorre, l’orologio ha continuato a girare e adesso c’è un Paese Tricolore che aspetta la vendetta: «Allo Stade Francais non dovranno accendere i riflettori, in campo ci saranno un’infinità di chandels a illuminare il gioco». L’immagine ce l’ha regalata Georges Coste, pensando ai calci infiniti, alla battaglia che si sposterà in cielo per avanzare in terra. Sarà una sfida di strategie e nervi, la resa dei conti che Les Bleus attendono da ventotto, lunghissimi, anni.

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