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Sun Tzu si avvicinava ai concetti bellici usando cadenze e strumenti filosofici; von Clausewitz, 2200 anni dopo, univa i canoni della realpolitik ai principi del razionalismo; Jomini era un teorico che avrebbe voluto calare nel reale le sue idee; von Falkenhayn si proponeva come preparatore di piani a largo respiro. Tutti, in modi diversi, erano strateghi che imprimevano forza assoluta alla loro visione, sino a meritare al loro campo d’azione l’etichetta di arte: arte della guerra.
Da questi studiosi, dal loro patrimonio di pensiero, dai loro scritti, il rugby ha assorbito i termini “battaglia, guerra, campagna” e altri ad essi immediatamente correlati: scontro di trincea, logoramento, mancanza di rifornimenti, attrito, vittoria campale, ritirata, disfatta, rotta, resa senza condizioni, capitolazione. Gli esempi diventati proverbiali possono esser rinvenuti, limitandoci al XIX e al XX, nelle giornate di Waterloo, Verdun, Caporetto, Stalingrado. E, nel caso, di una situazione inestricabile, tendente al… pareggio, in quella dello Jutland.
A questo punto, non è agevole individuare la collocazione dell’Italia di queste ultime stagioni. Giudicando sia secondo un metro strategico che sotto quello puramente tattico, le cose sono state preparate male e sul campo sono andate spesso anche peggio, ma verità vuole che mai gli Azzurri siano diventati i protagonisti di una fuga ingloriosa, di una bandiera bianca agitata al primo gradinare di proiettili, al cedimento di fronte a un pericolo imminente ma ancora lontano, nel segno di un terror panico.
Con truppe sperimentate, a volte logore, con reparti di riserva che spesso non erano mai stati sotto il fuoco nemico, con reduci dall’ospedale da campo o di immediata retrovia, il tattico che ha appena lasciato il comando (Jacques Brunel) ha lanciato le azioni che gli erano permesse: scontri di alleggerimento, resistenza di retroguardia, uso sistematico di pattuglie più che di robusti reggimenti. Lo scenario ha prodotto quel che possono offrire numeri severi: l’Italia ha vinto qualche bella battaglia, ha perso guerre e campagne per la mancanza – o l’impossibilità – di un piano strategico complessivo che prevede l’accumulo di idee, materiali e uomini, base per uno sforzo totale.
Ormai a corto di uomini – e quei pochi con esperienza assai limitata – Napoleone seppe impegnare a fondo e sconfiggere gli Alleati nei giorni pieni di pioggia e fango che precedettero lo scontro finale e fatale di Waterloo, durante il quale, peraltro, seppe far pendere a lungo il piatto della bilancia dalla sua parte. Lo scenario generale non poteva che portarlo a una sconfitta che, all’epilogo, si trasformò in disastro.
Transitando ancora dal campo di battaglia a quello di gioco, le cifre testimoniano di un fallimento, spesso di un progresso che tende a ritorcersi su se stesso, ma altrettanto non può esser detto – se non peccando di spietato cinismo o di malafede – sul comportamento di chi è andato per la centesima o per la prima volta a misurarsi con una delle più munite cittadelle dello sport: il rugby e la sua fortezza più antica, il Torneo. Nessuno ha imitato i sassoni che a Lipsia defezionarono per passare dall’altra parte, nessuno si è strappato i gradi per mimetizzarsi meglio nei fangosi flutti della ritirata.
L’Italia del nuovo record dei fatti-subiti (meno 145) ha continuato a battersi anche quando l’ultima ridotta era assediata, munizioni e viveri in via di esaurimento o finiti del tutto. E quella fuga di Odiete a Cardiff (meta annullata nel finale per un fallo precedente, ahimè) ne è l’esempio così chiaro da risultare nitido anche a chi vuole il cambiamento sotto forma di playoff (che un tempo chiamavamo spareggio) o di retrocessione. A tutti questi, anglosassoni e non solo, più che una risposta, un epigramma di una semplicità tale da confinare con la rozzezza: l’Italia è la più scarsa delle forti ed è di gran lunga la più forte delle scarse. E ha sempre lasciato il campo senza vergogna, anche nelle giornate in cui la resa senza condizioni era diventata una necessità, una normalità.
Giorgio Cimbrico

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