
Le dimissioni di Roberto Manghi da direttore generale della giovanissima, quasi neonata bisognerebbe dire, Lega Italiana Rugby (leggi qui la lettera inviata ai presidenti della Serie A Elite), nella settimana che precede i play off, suscita istintivamente un interrogativo che necessita risposte chiare e rapide: quale rugby per i club?
È fuori discussione che lo sport, tutto lo sport, non solo in Italia, tenda ormai a una dimensione economica che lo allontana dalle vecchie radici per farne una costola dello spettacolo, anzi dello show business tout court.
La vendita dei Boston Celtics per una cifra che supera i 6 miliardi di dollari rappresenta la direzione ideale verso cui molti sognano di andare.
Ma se le leghe professionistiche americane sono il vertice di un sistema irripetibile che negli Stati Uniti è alimentato dalle università e dalle scuole superiori. Quale può essere viceversa la ricetta per il rugby in Italia, uno sport che al momento vive una visibilità nazionale per meno di dieci settimane l’anno, quelle che corrispondono al Sei Nazioni e a un paio di test match autunnali?
Benetton, in queste ultime stagioni, ha visto i suoi risultati crescere in maniera esponenziale, ma non abbastanza per fare del club un protagonista assoluto dello sport in Italia. La sua visibilità rimane prettamente regionale, il suo bacino locale. Per non parlare delle Zebre che nemmeno Parma riconosce proprie in maniera integrale.
Stadio Lanfranchi di Parma: il pubblico sulle tribune in occasione della finale scudetto maschile del 2024.
Dunque parliamo di un vertice innestato su una base economicamente e strutturalmente molto debole: chi lo alimenterà negli anni a venire se le società cesseranno di fare reclutamento sul territorio, non riusciranno a fidelizzare nuovi adepti, in televisione e sulle tribune?
Ci sono due modi per crescere: mobilitare l’interesse del grande pubblico attraverso i risultati della nazionale, e sperare che quell’interesse si riversi sulla periferia, con le famiglie in fila per portare i bambini al minirugby o alle giovanili; oppure allargare la base in modo tale che possa sorreggere un vertice sempre più ambizioso e di qualità.
La prima strada presenta diverse criticità: come approfittare dell’interesse creato dalla nazionale se le maggior parte dei club non dispone di strutture di accoglienza all’altezza delle aspettative del pubblico? Parliamo di impianti, staff, palestre club house che devono competere con quelle di sport molto più facili da praticare: la pallavolo, il basket, il tennis, financo il judo, per non parlare del calcio con il quale non ci si può neanche confrontare.
E un appassionato che finito il Sei Nazioni vuole rivivere un briciolo di quelle atmosfere, di quello spettacolo, di quelle emozioni, dove può andare la domenica se è di Milano, di Roma, di Bologna di Firenze, di Genova, di Napoli?
Su un campetto dove si giocano i campionati davanti a 150 spettatori?
La nazionale è il rubinetto da cui proviene l’acqua che innaffia l’intera nostra coltivazione ovale, ma quanti terreni possiamo irrigare con quel flusso, che coltivazioni vogliamo fa prosperare?
Ribaltiamo il discorso, propone qualcuno, partiamo dalla base, rafforziamola al punto che sia essa ad alzare l’intero movimento nazionale. Ma qui si torna al punto numero 1: con quali impianti, staff, strutture, palestre, club house?
Qualche considerazione finale.
I club italiani non hanno la forza di sostenersi da soli e in molti casi neppure il know how: in Francia le società del Nationale (terza divisione, sotto Top14 e ProD2, hanno budget superiori a quelli della Serie A Élite, tra due e cinque milioni. Pertanto in Italia serve un sostegno dall’alto, senza il quale la piramide non sta in piedi.
Ora, che piramide vogliamo, come deve essere organizzata, perché i finanziamenti non siano solo beneficienza a pioggia, lasciando ognuno far come gli pare?
Qualche anno fa Allrugby aveva ipotizzato di mettere sotto contratto federale gli staff dei dieci club di Serie A Élite, 120 mila Euro a club per un tecnico, un assistente e un preparatore, 1,2 milioni in totale. Associando i club alle franchigie e le società di Serie A a quelle di Élite, in un percorso virtuoso che invogli gli allenatori a dare spazio ai giovani, per fare in modo che i nostri U20, come l’inglese Pollock, possano scalare rapidamente le gerarchie invece di giocare in A2. Segnaliamo che Pollock a febbraio aveva cominciato il Sei Nazioni come capitano dell’Inghilterra U20, lo ha finito con due mete a Cardiff, in Galles, in prima squadra, ed ora si discute se possa essere selezionato per il British & Irish Lions dopo aver già disputato quasi una ventina di partite con i Northampton Saints, tra Premiership e Champions Cup.
Il suo omologo azzurro Giacomo Milano, ha nel curriculum tre partite con le Zebre (media 44 minuti) e gioca abitualmente in A2 nel Noceto.
Tecnici pagati dalla Fir e in costante rapporto con la Commissione tecnica federale forse potrebbero fare della Serie A Élite un percorso virtuoso di formazione, rivalutando il campionato, al fine di attirare più pubblico, sponsor e visibilità mediatica.
In Inghilterra, l’università di Hartpury fa parte della filiera del Gloucester, quella di Exeter dei Chiefs, mentre Edoardo Todaro gioca per la Ipswich School che fa parte del progetto Academy dei Northampton Saints.
Insomma serve un progetto condiviso da tutti, che valorizzi il territorio lo invogli ad investire in uno sport che presenta ancora difficoltà di comprensione per il grande pubblico.
Manghi nella sua lettera ipotizza che le critiche rivolte alla sua persona siano “solo un espediente per colpire il presidente della Lega. Forse anche lo stesso progetto di Lega”. Non è un buon segnale se si parla di agguati tesi nell’ombra, quando servirebbe un confronto collettivo chiaro, trasparente, positivo.
Senza, il rugby italiano resterà sempre una cosa di pochi. E mentre gli altri galoppano noi saremo condannati a stare a guardare.