Tommaso Menoncello, padovano, un torso che sembra quello del Belvedere conservato in Vaticano, un’aggressività da belva libera da lacci, è in lotta con Ben Earl, Bundee Aki e Duhan Van de Merwe per il titolo di Giocatore del 6 Nazioni. Tra qualche giorno il verdetto, anticipato da un’ondata di lodi che ha investito giocatori (Lamaro, Brex, Garbisi), squadra e chi pochi mesi fa ha preso in mano timone e briglie: Gonzalo Quesada.
La designazione di Menoncello invita a riesumare quel che con autentica felicità, venne scritto tredici anni fa quando l’Oscar finì nelle mani del primo e unico azzurro. È un flashback, un messaggio nella bottiglia: chissà se il diretto interessato lo scoverà da qualche parte.
Il voto del mondo ovale ha eletto il miglior giocatore del 6 Nazioni. È un italiano, è Andrea Masi: mai capitato. L’estremo degli ultimi davanti agli inglesi primi, agli irlandesi magnifici all’ultimo round, a tutti. Dei 17.000 voti Andrea ne ha raccolto il 30%, oltre 5.000, precedendo un altro azzurro, la novità Fabio Semenzato (12%), l’irlandese Sean O’Brien e l’Inglese Toby Flood, attestati sul 10%. Nel 2010 era toccato a Tommy Bowe, ala irlandese. Decisiva la storica vittoria sulla Francia, ma anche la meta con la Scozia è servita a dare corpo finale ad exit poll molto incoraggianti.
Con i Galli, partita perfetta: prese al volo per sventare attacchi paracadutati, assalti portati con la determinazione del cuneo che deve aprire la breccia, la meta cercata e trovata in una piccola testa di ponte sul prato del Flaminio; con gli scozzesi, prima che, dopo mezz’ora, cedesse una coscia, una meta tra le più belle della storia azzurra: tre passaggi veloci e piatti sull’asse Burton-Semenzato-Canale e palla a lui che arriva in velocità e lascia sul posto Walker e il resto dei segugi: venticinque metri in accelerazione, venticinque metri di erba bruciacchiata dai suoi appoggi poco gentili.
Bella testa michelangiolesca, aquilano trapiantato in Francia (va così dal 2005: prima Biarritz elegante e atlantica, poi Parigi sponda Racing), Masi ha aspettato di avvicinare il traguardo dei 30 anni per mostrare quel che vale: tanto. E ora è bene lasciargli la parola: “Il trofeo è già a casa, quartiere di Saint Germain. In casi come questi si dice: non ci posso credere. E invece è tutto vero e io sono felice per me, per il rugby italiano, per la mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, per Consuelo, la mia ragazza, aquilana come me. Tra una settimana faccio trent’anni e così è facile dire che è il coronamento di una carriera iniziata molto presto: a 18 anni ero già nel giro della Nazionale. Alti e bassi: ci si sono messi di mezzo gli infortuni e le decisioni sul mio conto. Ho giocato mediano di apertura, centro, ala. Ma io sono un estremo. Ottenuto quel ruolo, eccomi qui”. Il più votato in Europa.
Finalmente un po’ di vis dialettica (“Sono riservato, è più forte di me: mi hanno insegnato così i miei genitori”); l’altra vis era nota: 1,83 per 97 chili, veloce, aggressivo, potente, capace di rimanere in piedi sul primo placcaggio, magari anche sul secondo. Masi, in corsa per il titolo: se ne parlava da giorni. Ora è realtà: battuti tutti, sbaragliato Chris Ashton, Ash the Splash, l’ala che segna a raffica (all’Italia, un poker) e si concede ai fotografi in un tuffo che il ct Martin Johnson detesta. Contro la Francia, Masi non si è tuffato. “I francesi hanno sentito il nostro fiato sul collo. Dalla nostra aggressività, dalla nostra decisione sui punti di contatto hanno capito che noi inseguivamo il sogno e la storia”. Quel giorno ad Andrea Il Taciturno era sfuggita una battuta al vetriolo: “I francesi sono sbruffoni: ben gli sta”. Più o meno sullo stesso tono di Mirco Bergamasco, lui di sponda Stade Francais: “Dopo tutti questi anni in Francia, una vittoria ci voleva”. La considerazione che i Galli hanno di sé stessi è sempre molto alta, quella che hanno degli altri, piuttosto bassa. Non è un caso che da quelle parti sia nato il caporale Nicolas Chauvin, fondatore dello sciovinismo.
Masi è cambiato, ora confeziona anche slogan: “In questa squadra è arrivato uno spirito nuovo: mai accontentarsi”. È un invito per quel che sta appeso sul lontano orizzonte degli antipodi neozelandesi: il 2 ottobre, a Dunedin, sprofondata nel sud più estremo, contro l’Irlanda è in calendario l’ultimo match del girone della Coppa del Mondo. Può proiettare l’Italia tra le prime otto forze. “Finita l’epoca in cui si andava in campo battuti in partenza. Gli irlandesi valgono, noi anche”.