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Appena prima di Italia-Inghilterra in tribuna è comparso – lo giuro, è vero, posso citare testimoni autorevoli… – un ragazzino con i capelli rossi tagliati alla Sinner. Un segnale, mi sono detto, un avatar del Campione che per tre giorni ha seminato entusiasmo a Roma fra Colosseo, Quirinale e Palazzo Chigi, reduce dai trionfi in Davis e a Melbourne.

Invece no, mannaggia. L’Italia ha avuto la chance di spezzare il tabù e battere finalmente i Maestri. Ma a differenza del favoloso Jannik, ha sprecato il matchpoint. I matchpoint, anzi. Avanti 10-0, 17-8, 17-14 a fine primo tempo, si è fatta inesorabilmente rimontare. Invece di fare la partita, ha iniziato a subirla. Allan di calci ne ha piazzati tre su quattro: l’unico fallito non era impossibile, e forse – sottolineo forse – poteva valere un pareggio. Può sembrare ingeneroso, ma nello sport funziona così. Sinner il vero salto di qualità lo ha fatto quando ha iniziato a cogliere le occasioni, a trattenere e trasformare in storia l’attimo fuggente in cui il favorito, il big, il Djokovic di turno, ti consegna la Grande Occasione. «Siamo stanchi di perdere partite come queste per una manciata di punti», dice giustamente Lamaro, e Quesada fa benissimo a sottolineare che stavolta, dopo il quasi-gol contro la Rosa, negli spogliatoi, non ha visto volti soddisfatti per l’onorevole sconfitta.

Sinner da un paio di anni era lì, a un passo dal Paradiso, ma cadeva, quasi sempre, su qualche punto di percentuale nel servizio, su qualche chiletto in meno di muscoli. Sul ’15′ pesantissimo – perché nel tennis i punti oltre che contati vanno pesati – che ti guadagni o che ti è regalato. Ad esempio il matchpoint sprecato due anni fa a New York contro Carlitos Alcaraz. Era ‘solo’ un quarto di finale, ma come mi ha detto Rafa Nadal, ‘Jannik ha perso gli Us Open per quel punto’.

Poi il fenomeno ha cambiato marcia. Negli ultimi undici scontri contro i top ten, i primi dieci del ranking, ne ha perso uno solo. A Melbourne ha vinto per la prima volta in un torneo dello Slam contro un top 5 e ha finito per prendersi il torneo: rompendo un tabù che durava da quasi 50 anni, dal trionfo parigino di Adriano Panatta nel 1976.

Ma prima c’era stata Malaga, i tre matchpoint salvati a Djokovic in Coppa Davis: con fortuna il primo, con coraggio gli altri due. Il serbo resta il numero 1 del mondo, ma con Jannik ha dovuto mollare tre degli ultimi quattro scontri diretti.  A Wimbledon il Rosso era ancora un apprendista, ora è lo sfidante, anzi: l’antagonista. Questione di tecnica, ma anche di feeling: di quello che hai con te stesso. «Vincere aiuta a vincere», dicono i saggi di tutti gli sport. Ti regala fiducia, ti costruisce attorno un’«aura» diversa. Ma è un incantesimo che passa prima dal lavoro infinito sulla tecnica, sulla tattica, e poi dal profondo di te stesso, dalla convinzione che hai nei tuoi mezzi. «Per battere Djokovic – sostiene John McEnroe – devi credere di poterlo battere». Non è un caso, allora, che Quesada abbia impiegato tanto, del poco tempo che aveva per preparare questo Sei Nazioni, alla ricerca dell’«identità» dell’Italia. Quella persa ai Mondiali, e che ora bisogna ritrovare.

Foto: Sposito/FITP

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