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Nell’impero dell’ipocrisia, è bello sentir dire ogni tanto la verità. “I giocatori sono diventati carne da macello. Chi comanda pensa soltanto ad aggiungere nuove competizioni. Può sembrare assurdo ma l’unica sistema per recuperare è infortunarsi seriamente, come è capitato a me”: e questo è il pensiero di Romain Ntamack che non ha giocato il Mondiale di casa per un grave infortunio al  ginocchio. “Ringrazio il mio club per avermi concesso un paio di mesi di riposo: torno a sentirmi addosso 28 anni e non i 35 che avvertivo poco tempo fa, quando mi alzavo da letto”: e queste sono le parole di Gregory Aldritt. I giocatori non sono Terrminator, sono fatti di muscoli, ossa, tendini, non di titanio. E possono avere certificati di garanzia a scadenza sempre più rapida. Ma c’è qualcuno se ne preoccupa? “Obiettivo principale di World Rugby è la salvaguardia della salute dei giocatori” è la solita risposta del governo mondiale, ormai ben avviato, come ogni altra federazione, a trasformarsi in consiglio d’amministrazione, guidato da un Ceo che di recente, per servizi resi al rugby, è stato nominato Cavaliere di Gran Croce da Carlo III.

Le verità non nascoste dai due francesi vengono il giorno dopo la lettura di un pezzo del Guardian che non può che aver indispettito chi ha vissuto il rugby con affetto, spesso con commozione e con una buona dose di estetismo.

Il significato, detto in quattro parole, era: fatevene una ragione, il rugby di una volta non valeva quello di oggi, provate a rivedere partite memorabili e ve ne accorgerete. E uno degli esempi forniti era il pareggio di Auckland che stabilì la vittoria dei Lions nella serie del ’71. E così mi è venuto in mente un memorabile pezzo di quel buonanima di Renato Morino dopo l’8,90 di Bob Beamon: “Andammo a cena e cominciammo a dire che quei 2200 metri sul livello del mare, quel vento a favore di due metri, quell’atmosfera elettrica che aveva preceduto il temporale, quel tartan così elastico, così generoso nel restituire le spinte, avevano contribuito in modo determinante e così quell’8,90 diventava sempre più corto. Sino a quando ci rendemmo conto del vuoto delle nostre parole e capimmo di aver assistito a qualcosa di unico, di straordinario”. Fissato dallo scatto di Tony Duffy.

In pieno clima di revisionismo, qualcuno oggi potrebbe essere pronto a dire che tutto sommato, a parte il volo dell’airone, la gara fu noiosa.

Ora, anche qui, in questo pezzo che vuole tagliare i ponti con un passato così pieno di entusiasmo e di magnifica approssimazione c’è di mezzo una foto e anche questa, come quella di Beamon, è in bianco e nero: Barry John è appena sfuggito al tentativo di “francesina” di Sid Going, steso sull’erba, così come un altro All Black fatto fuori  dal Principe di Galles. Wayne Cottrell (a destra) e  Ian Kirkpatrick, inseguono rassegnati, mentre l’inglese Peter Dixon accorre in n sostegno accennando un sorriso. E’ una di quelle foto che raccontano un’epoca, un quadro storico come la Ronda di Notte di Rembrandt, come l’Entierro del Conte d’Orgaz di El Greco.

Partite confuse, piene di mischie, di touche senza corridoio, di colpi proibiti, niente a che vedere con gli scontri d’oggi, imperniati su velocità, potenza e raffinati studi strategici, disegnati con l’aiuto della tecnologia: è così facile liquidare il passato, è così agevole accarezzare le meraviglie plastificate del presente, è così superficiale dimenticare uno spirito oggi sempre più fievole: era la dimensione che li faceva vivere una breve carriera, varcare gli oceani, formare improvvisate corali, saldare per sempre i legami di una confraternita. E così evitiamo i giudizi troppo sicuri (le certezze mi hanno sempre terrorizzato) e lasciamo scivolare una mano nella corrente. E’ gelida, è tiepida e l’acqua è limpida, è sporca. E’ la storia.

La foto in bianco e nero è dell’Hulton Archive/Getty Images

La foto del titolo (Owen Farrell placcato da Jeronimo de la Fuente nella finale mondiale per il terzo posto) è di David Ramos (World Rugby-Via Getty Images)

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