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Oggi gli uomini del 2003, i Woodward’s boys si riuniscono per brindare ai vent’anni trascorsi dall’impresa: la vittoria nella Coppa del Mondo, l’unica su cui ha messo le mani una squadra dell’emisfero boreale. I felici pochi, li ha chiamati Robert Kitson sul Guardian, con inevitabile citazione dall’Enrico V e dal giorno glorioso di Azincourt.

“Dicevano che eravamoo vecchi e lenti. La realtà è che avevamo la convinzione e la capacità di giocare ogni tipo di rugby”, dice Martin Johnson, il capitano che non perdeva tempo in lunghe orazioni pre-match. Lui sapeva quello che andava fatto e lo sapevano tutti gli altri. Perché quell’Inghilterra era un corpo solo. “E sapevamo come si affila l’ascia”, ricorda Will Greenwood ricorrendo ad un’allegoria di gusto silvano. E se ancora qualcosa poteva mancare prima della partenza per l’Australia, era stato trasmesso dalla visita di Steve Redgrave.

Era un bunch, un mucchio di diversità che facevano una entità sola: la forza, la feroci, il talento, il colpo di genio. E ancor oggi tutti vogliono sottolineare che se, vent’anni dopo, è negli occhi di tutti il drop di Jonny Wilkinson, loro conservano nella memoria – e vorrebbero che tutti facessero altrettanto – come quel gesto decisivo venne costruito.

C’è una foto che li ritrae tutti assieme dopo il lungo volo di ritorno, dopo l’apoteosi nelle strade di Londra sul bus scoperto dove venne consumata una buona quantità dell’invenzione di Dom Perignon. Li ritrae tutti ordinati e compunti a Buckingham Palace. In mezzo, lei, Elisabeth che li aveva invitati per un tè pomeridiano. Nel 1966 premiò i Ramsey’s Boys, trentasette anni dopo tutti gli uomini di sir Clive.

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