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Sembra un cabarettista, quell’uomo con la maglia degli All Blacks che, sul palco del villaggio dei Mondiali, insegna a una piccola folla come fare la Haka. Parla perfettamente francese, ma francese non è. Si chiama Mike Clamp, è di Wellington, ha una sessantina d’anni e a metà degli anni 80 ha giocato, da trequarti ala, due test match per la Nuova Zelanda. Poi è venuto in Francia – a Biarritz, compagno di squadra del fenomeno Serge Blanco – e ha deciso di cambiare Oceano, dal Pacifico all’Atlantico, rimanendo nella città basca e distinguendosi anche come surfer.

Ecco, Mike si ferma a fare due chiacchiere e, appena sente che siamo italiani, allarga le braccia e ci interroga sugli Azzurri devastati dai suoi connazionali: “Ma che cosa è successo all’Italia?”, chiede con l’aria incredula. La domanda corre lungo un filo ideale, te la pone un francese in trattoria, la replicano un paio di italiani “autorevoli” incontrati davanti alla cattedrale di Saint-Paul. “Che cosa è successo?”. In fondo è veramente questo l’interrogativo numero uno, per capire come è nato questo “anti-spot” per il rugby mondiale, con la quarta squadra del ranking che infligge quasi cento punti all’undicesima. Di sicuro, ci sono tutte le ragioni “tecniche” che hanno portato a un risultato del genere, dalla superiorità non negoziabile di ciascun All Black rispetto al pari ruolo in maglia azzurra all’incapacità di reggere una intensità come quella imposta dai nostri avversari fin da subito, il che poi porta alle difficoltà in ogni parte del gioco.

Ma quell’interrogativo di Mike, e degli altri appassionati a vario titolo, porta a una riflessione in più, che coinvolge anche i match con la Namibia e l’Uruguay e risale probabilmente all’ultimo Sei Nazioni. Il problema consiste in primi tempi quasi sempre inadeguati, cui si può porre rimedio contro squadre meno attrezzate, ma che, quando si alza il livello della controparte, si rivelano di fatto uno scoglio tombale per qualsiasi ambizione. Intendiamoci, dalla Nuova Zelanda si sarebbe comunque perso, ma ci dev’essere stato per forza anche un modo sbagliato di affrontare l’evento a livello psicologico, che ha dato l’impressione di una squadra non disposta a lottare su ogni pallone, su ogni placcaggio.

E a questo punto, contro un colosso del rugby, nel secondo tempo c’era ben poco da fare, al di là delle due belle mete in bandierina. E allora proviamo a ipotizzare quello che è successo, prima di tutto: semplicemente, al momento di entrare in campo la “testa” non ha funzionato nel modo giusto. Se su questo punto si trovasse un rimedio, più o meno consapevole, e contro la Francia si cominciasse dal primo minuto a giocare con semplicità e determinazione, ricorrendo alla cassetta degli attrezzi di cui parla Alessandro Cecioni (Nella mente degli azzurri) , senza deviare da questi binari per il maggiore tempo possibile, non si vincerebbe comunque ma non dovremmo più fronteggiare “quella” domanda. E riacquisteremmo una parte di credibilità.

Nella foto di Valerio Vecchiarelli Mike Clamp parla con l’autore di questo articolo

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