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È il diciassette giugno del 2000, alla finale per il titolo di campione d’Italia sono arrivate la Rugby Roma e L’Aquila: allo stadio ci sono oltre sedicimila persone. Milano, quattro scudetti tra il 1991 e il 1996, non c’è più ma è risorta la capitale.

Quattro mesi prima, a febbraio, nella partita inaugurale del Sei Nazioni, gli Azzurri hanno battuto la Scozia, con il Flaminio tutto esaurito e il pallone ovale sulle prime pagine dei giornali. Il futuro del rugby appare tinto di rosa in Italia.

Invece d’improvviso, mentre all’estero si comincia a discutere di stadi più grandi e di bacini metropolitani, mentre, in Francia, Parigi, con lo Stade Francais, cui poi si aggiungerà il Racing, diventa la nuova realtà del rugby del Paese, da noi tutto d’un tratto si inverte la tendenza. Dopo Milano, anche Roma va a picco: nemmeno il tempo di festeggiare lo scudetto e, due stagioni dopo il successo, la gloriosa Olimpic finisce penultima. Il calvario di Roma durerà un paio di stagioni, la retrocessione inevitabile arriverà nel 2004.

Nel frattempo, a contrastare il dominio di Treviso si sono candidate due piccole realtà della Lombardia, Padania nei sogni di qualcuno: Calvisano e Viadana. “I due nuovi centri, insieme, non contano venticinquemila abitanti –  raccontavamo nel 2008 nel libro che celebrava gli 80 anni della Fir – ma pulsano di passioni e hanno al proprio seguito tifosi numerosi e festanti. Se altrove il pubblico è diventato svogliato ed esigente, abituato al successo, un po’ annoiato e poco incline a mostrare i propri sentimenti, qui ci sono sanguigna partecipazione e genuino spirito di campanile. Le due squadre dispongono di mezzi rilevanti, anche perché alla testa delle rispettive avventure rugbistiche hanno imprenditori capaci, uomini di un territorio di cui la sociologia comincia ad occuparsi con curiosità. Sono gli attori di un nuovo localismo che non conosce successi solo nello sport, ma rivendica identità e presenza anche a livello politico. È il nuovo che avanza sotto le bandiere del “piccolo è bello”. Piccolo, per quanto riguarda il rugby, significa poter contare su strutture che le grandi città spesso non sono in grado di mettere a disposizione. Nella piccola realtà viceversa, gli amministratori locali sono più vicini alle esigenze dello sport, in questo caso della pallovale”.

Fast forward.

Siamo a giugno del 2023, dalla data di quella prima finale del nuovo millennio sono trascorsi 23 anni, ventiquattro campionati: facciamo la conta di chi non c’è più. Dopo Milano e Roma (le Fiamme Oro sono una realtà extra territoriale), sono sparite, da quella che d’ora in poi si chiamerà Serie A Elite, anche San Donà, Catania, L’Aquila, Parma (che ebbe in Eccellenza perfino due squadre), Prato.

Venezia, Firenze, Verona e Torino hanno fatto negli ultimi quindici anni sporadiche e repentine apparizioni. La prossima stagione esordirà ai vertici Vicenza, ma intanto soffre Mogliano e fa un passo indietro Calvisano, dove il San Michele, insieme allo Zaffanella di Viadana, pare un monumento ai fasti che furono.

Due impianti che raramente, se non mai, giustificano la capienza, sinonimo di vecchie ambizioni.

Viadana paga da anni il passo troppo lungo degli Aironi e con essi l’uscita di scena dal panorama rugbistico dell’Arix, l’azienda della famiglia Melegari, storico sponsor della squadra campione d’Italia nel 2002 e finalista nel 2009 e nel 2010.

Calvisano sconta l’addio del suo mentore e fondatore, Alfredo Gavazzi, scomparso alla fine dello scorso mese di ottobre. Senza di lui, il club che tra il 2001 e il 2019 ha vinto sette scudetti e disputato quattordici finali è stato costretto a gettare la spugna e ridimensionare traguardi e prospettive.

Negli scorsi mesi la società giallonera ha salutato non meno di 28 giocatori. Ripartirà dalla serie A1 e da un bravo formatore, Mattia Zappalorto, già direttore tecnico del settore juniores del Mogliano.

C’è da ricostruire una filiera, ripartire dal basso, dai giovani: spendere meno, provare a spendere bene.

Il primo dei suoi sette scudetti il Calvisano lo conquistò nel 2005. Prima di quel traguardo, la storia parla di quattro sconfitte consecutive in altrettante finali. Il successo arriverà con una formazione che nel frattempo è diventata parente stretta di quella della Nazionale: Castrogiovanni, Perugini, Moretti, Zaffiri, Griffen, Nitoglia, Zanoletti, Ravazzolo e Vaccari. La replica arriverà nel 2008 con un gruppo del quale, tra equiparati e non, facevano parte non meno di 15 giocatori di scuola e formazione straniera.

Un volo di Icaro, pagato caro: nel 2009, in concomitanza con l’ammissione di due squadre italiane alla Celtic League, e senza i mezzi per potersi candidare per quella nuova avventura, il club si impose una prima retrocessione volontaria. Alla quale seguì il ritorno in Eccellenza nella stagione 2011/2012, subito premiata dal primo di cinque scudetti nell’arco di otto campionati.

Ma di nuovo, all’alba del 2023 e senza il suo nume ispiratore, Calvisano si è trovato orfano di tutto quello che Alfredo Gavazzi aveva rappresentato per il club nella sua storia: visione, passione, mezzi economici messi a disposizione con generosa profusione e un pizzico di follia.

È la storia paradigmatica di uno sport dove l’uomo solo al comando tiene la barra del timone finché può, in un campionato che non prevede entrate né dai diritti televisivi, né dal botteghino, nè dal merchandising, che negli sport di squadra più importanti rappresentano le tre voci principali del bilancio in entrata.

Restano gli sponsor, generosi, appassionati, ma spesso miopi nella promozione delle proprie iniziative e incapaci di fare lega con i colleghi delle altre società.

Così Francesco Casali, presidente dello scudetto 2008 del Calvisano e, di nuovo, nella stagione 2020/2021: “Restano di questi anni una grande orgoglio, perché non accadrà mai più che un paese di seimila abitanti vinca sette scudetti, ma anche la consapevolezza di aver fatto una cosa che non poteva durare. I numeri, già dopo aver vinto il primo titolo (25-20 contro il Treviso a Padova nel 2005) ci dicevano che era impossibile continuare. E infatti, pochi anni dopo, è arrivato il primo ridimensionamento. Poi, la forza di Alfredo (Gavazzi, ndr), la sua determinazione, la sua incoscienza hanno prolungato fino a ieri quell’avventura. E se non fosse stato per lui, di Calvisano oggi non parlerebbe nessuno, nessuno conoscerebbe la storia di questa piccola realtà che a un certo punto ha dominato in Italia e si è fatta onore anche in Europa. Ma è il sistema nel suo insieme che non poteva reggere. Perché il rugby nel nostro paese non ha i numeri per giustificare bilanci da due milioni di euro. E se siamo onesti, visto quello che sta accadendo in Inghilterra, e fatte le debite proporzioni, forse è il rugby stesso, non solo in Italia, che non ha presupposti per reggere a livello imprenditoriale. Le squadre stanno in piedi finché c’è un appassionato molto ricco che paga, o finché i soldi ce li mette la Fir. Se togli queste due fonti di entrata, il giocattolo si rompe e finisce la storia. Quante ne abbiamo viste in questi anni?”.

Da dirigente si sente di dover fare un’autocritica?

“Noi, il rugby, non eravamo preparati al professionismo. E quando quest’onda ci ha travolto non siamo stati capaci, nessuno, di mettergli un freno. Ci siamo svenati per giocare davanti a 400 spettatori, 100mila, forse, in televisione, e pagare mille euro al mese i giocatori, creando un professionismo da disadattati. Avremmo dovuto avere il coraggio di interrompere quella spirale. Ma nessuno l’ha fatto, nessuno ci ha provato. Noi ci siamo autoretrocessi nel 2009, ma poi, una volta promossi, siamo ripartiti con i medesimi errori. Il dato di fatto è che oggi il sistema regge solo in Francia, mentre in tutto il resto del mondo, dal Galles all’Australia, le squadre boccheggiano. Figuriamoci se potevamo tenere botta, noi, da soli a Calvisano…”.

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