
Domenica 23 marzo, in occasione della cinquantesima sfida ufficiale tra Italia e Francia, la FIR e tutto il rugby italiano ed europeo renderanno omaggio alla carriera di Sergio Parisse, recordman assoluto di presenze nel Sei Nazioni (69), la cui ultima delle sue 142 partite in maglia azzurra fu disputata in Giappone nel corso della Coppa del Mondo 2019.
Negli oltre cinque anni trascorsi da allora, prima per il covid, poi a causa di un incomprensibile disinteresse da parte delle istituzioni federali, non era stato possibile organizzare un degno saluto al giocatore che da capitano ha guidato l’Italia in 94 occasioni.
Riportiamo qui una sintesi dell’intervista con Parisse pubblicata lo scorso novembre, nel numero 196 di Allrugby, in occasione della sua ammissione alla Hall of Fame di World Rugby, primo italiano a meritare questo riconoscimento internazionale.
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Sergio vestì per la prima volta la maglia azzurra a giugno del 2001, ai Mondiali U18 in Cile,. “Lì è nato il Sergio Parisse italiano – racconta – non che non lo fossi prima, ma quello è stato il momento della scelta definitiva. Mi avevano cercato anche i Pumitas”.
Sergio che nel 2002 esordisce in nazionale prima ancora di essere titolare nel Benetton. “A Treviso non avevo ancora mai giocato in prima squadra. John Kirwan mi portò in tour in Nuova Zelanda e mi mandò in campo contro gli All Blacks. Ero pronto? Neanche un po’, ma quell’esordio anticipato mi fece crescere”.

Sergio che nel 2005 debutta con lo Stade Français. “Giocai 20 minuti contro il Narbonne. Poi, titolare contro il Tolone e nella mia prima partita con la maglia numero 8 feci due mete. Da lì in poi tutto è diventato ancora più veloce”.
Sergio che nel 2008 diventa capitano della nazionale con l’arrivo di Mallett. “Mi aveva avvertito della sua scelta. Marco (Bortolami, ndr) fu leale: mi disse che non gli faceva piacere, ma che avrei potuto contare su di lui. E così è stato”.
Sergio che confessa: “Il rugby è stato il mio amore, la mia passione, ma anche la mia ossessione. Sono sempre stato esigente con me stesso e con gli altri. Non accettavo deroghe all’impegno né in partita né in allenamento”.
Sergio che a Tolone si alzava alle 5 per allenarsi tre ore prima degli altri. “Sono riuscito ad arrivare fino a 39 anni giocando ad alto livello grazie a un’attenzione minuziosa ai dettagli”.

Sergio che non parla di sacrifici. “I sacrifici sono un’altra cosa. Certo, mi dispiaceva uscire di casa mentre Silvia e i bambini dormivano…”. Preferisce parlare di “scelte”.
Sergio che dice: “Non mi sono mai sentito ingabbiato in una maglia, in un numero. Ho sempre fatto quello che mi sembrava più giusto. E oggi questo riconoscimento che il mondo del rugby mi regala è anche frutto della mia imprevedibilità”.
Sergio che parlava da capitano. “La responsabilità non è mai stata un peso. Il capitano ognuno lo fa come si sente. Io credo di averlo costruito nel tempo. Avevo carisma? Non so. Ma non sono mai cambiati i miei valori, quelli sono rimasti gli stessi da quando avevo 17 anni”.

Sergio che avrebbe potuto vincere di più. “So che qualcuno dice: ‘Pensa a quante mete avrebbe fatto Parisse se avesse giocato negli All Blacks…’. Avrei potuto trasferirmi ai Saracens, ma mi sono sempre divertito. Ho perso più di cento partite con l’Italia eppure oggi entro nella Hall of Fame. Questo vuol dire che ho lasciato un segno, a prescindere da quanto ho vinto”.
Sergio che aggiunge: “Ero il più bravo, il più veloce, il più atletico? No. Ma ho trovato un equilibrio che mi ha permesso di mantenere un certo standard di rendimento. Ho sempre dato tutto e credo che a colpire sia stata la mia continuità”.
Sergio cui è rimasto un rammarico. “Mi sarebbe piaciuto fare il mio passo d’addio all’Olimpico, davanti ai nostri tifosi. Purtroppo non è stato possibile”. (gianluca barca)
Domenica, in qualche modo, il rugby gli rende quanto dovuto.
Nella foto del titolo, contro la Francia, all’Olimpico, nel 2019, ultime delle 69 partite di Parisse nel Sei Nazioni. (foto Federugby)