
Sabato a Twickenham la Scozia ha una missione: se vince, ottiene la più lunga serie di successi di fila nella Calcutta, cinque, uno più della parentesi vittoriana 1893-1896 e di quella in corso dal 2021.
I più freschi precedenti nella Fortezza sono incoraggianti: 38-38 nel 2019, 11-6 nel 2021 (l’ultima vittoria dei blu nel Middlesex era di 38 anni prima), 29-23 nel 2023. Da quando si gioca per l’artistica coppa, 71 vittorie della Rosa, 44 del cardo, 16 pareggi.
Gli scozzesi sono giù di corda dopo esser stati dominati a Murrayfield dall’Irlanda: gli inglesi hanno il vento in poppa (le poppe al vento non ci sono più da quando viene montata una feroce guardia sugli streakers e sulle streakers) dopo aver battuto allo sprint i francesi.
Le Crunch non è la Calcutta ma è sempre un bello scalpo o un mazzo di piume strappato dalla coda dei Galli e autorizza a giochi di parole. “Give us our Daly bread” è la preghiera di ringraziamento rivolta al Signore, in cui, in realtà, dovrebbe trovar posto anche uno dei due Smith, Fin, che ha padre scozzese. Sabato avrà la meglio il vincolo famigliare o la forza delle radici?

Molte cose sono state spazzate via da questo tumultuoso trentennio di professionismo, scandito da passi spesso più lunghi delle gambe, da tentativi di avvicinarsi all’altro sport che si gioca su un campo di analoghe dimensioni con un pallone diverso, da una serie di cambiamenti che qualcuno ha etichettato come mutazioni, da un vecchio spirito che si è affievolito lasciando spazio a un “nuovo” che lascia perplessi, specie i vecchi, inguaribili nostalgici, ma la Calcutta rimane, lucida, imperiale con quei simboli del Raj (i cobra, l’elefantino) che oggi saranno estremamene sgraditi a chi ha una certa visione della storia e propone di usare la gomma e il bianchetto. Come fosse facile…
Quando c’è in ballo qualcosa di meravigliosamente memorabile come quel bel pezzo d’argenteria, è normale ricorrere a una parte di quel che si conserva in archivio, una specie di Bignami. Non resta che sfogliarlo.
La Calcutta Cup è in mano scozzese come per secoli è stata in mani inglesi la pietra di Scone: è il simbolo della rivalità tra due vicini tra cui è corso molto sangue. E che il futuro potrebbe dividere più di quanto le divida il confine che corre tra il Northumberland e i Borderers, rappresentato da un pietrone. Da una parte c’è inciso England; dall’altra, Scotland.
Flash back: “La facciamo noi o vi inviamo i soldi e ci pensate voi?”. “Provvedete pure voi”. Nel 1877 non c’erano e-mail, soltanto lettere vergate su carta intestata: i tempi erano più lenti ma tutto rimaneva agli atti. Chi domanda è James Rothney, segretario del Calcutta Football Club; chi risponde, da Londra, è il segretario della Rugby Football Union. Rothney scrive che va bene, che affideranno il lavoro a un artigiano locale e che la somma che metteranno a disposizione equivale a 60 sterline, non poco. Nel 1878 l’argentiere indiano ha finito il suo lavoro, la coppa è pronta ed è una bellezza, una specie di bicchierone con tre manici che sono cobra reali e un elefantino sul coperchio del boccale: è la Calcutta Cup, messa in palio ad ogni incontro annuale tra Scozia e Inghilterra, in ricordo del Calcutta Football Club che, dopo qualche stagione di successi e di partite frequentate dalla buona società britannica che aveva trovato radici nel Bengala e nel Raj, aveva registrato un rapido declino, soprattutto per motivi climatici: il polo era più amato dagli ufficiali che arrivavano dalla patria e il cricket lo giocavano sia i militari che gli impiegati dell’Indian Civil Service e lo stavano imparando gli indigeni, con eccellente profitto. E così, dal momento che nelle casse sociali era rimasta quella somma in rupie d’argento, perché non sottoporle a fusione e lasciare un segno di sé?
Robert the Bruce guida i suoi uomini nella Battle of Bannockburn del 1314.
.La Calcutta è conservata al Museo del Rugby di Twickenham ma per lunghi anni la settimana prima del match era esposta a Londra, in una gioielleria di Abermarle Street, elegante parallela dell’altrettanto elegante Bond Street, con magnifiche gallerie d’arte dove è possibile rimaner rapiti vedendo in vetrina un Canaletto o un Balthus, o in Princess Street, la strada principale di Edimburgo. La prima volta che venne messa in palio – 1879 – mentre le truppe di Vittoria stavano sistemando spiacevoli vicende legate all’insopprimibile orgoglio degli zulu – non prese la via della sede né della federazione inglese né di quella scozzese: all’Accademia di Edimburgo, in Raeburn Place, finì con un risultato raro: pari. È capitato in altre quindici occasioni.
La coppa, che affianca nel pantheon dello sport vittoriano Oxford-Cambridge di rugby (Varsity match) e di canottaggio (The Boat Race), ha avuto anche i suoi Erostrati: capitò nel 1988 quando, dopo banchetto e libagioni, Dean Richards inglese e John Jeffrey scozzese (detto lo Squalo Bianco) decisero di metter in scena un terzo tempo giocato, usando la Calcutta come palla ovale. Loro sospesi e coppa ammaccata. Capitò anche alla Coppa America, presa a martellate da un pazzo e restaurata, gratis, dagli argentieri Garrard che l’avevano fusa nel 1851. L’increscioso episodio ha consigliato di confinarla nel museo e di consegnare delle copie ai temporanei depositari.
Presto, sabato, ancora una di fronte all’altra, con fatali rinvii al tempo delle battaglie tra Edoardo I, martello degli scozzesi, William Wallace e Robert the Bruce. Flower of Scotland, che narra di quei sanguinosi scontri vecchi sette secoli abbondanti, venne riesumato proprio per un match di Calcutta e da quel momento ha sostituito il vecchio inno “Scotland the Brave”, considerato una marcetta per turisti. Quel giorno il capitano dei blu offerse le stesse parole dell’antico eroe che gli inglesi tagliarono a pezzi: “Oggi non si fanno prigionieri”. Non furono fatti prigionieri.
Nella foto del titolo, Calcutta Cup e trofeo del Sei Nazioni una a fianco all’altro, l’anno scorso a Murrayfield