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Tom Foley ha usato la parola giusta: vetriolo. E’ l’acido corrosivo che è il sangue dei social, fatto fluire in abbondanza da chi di rugby – e di sport – non sa nulla. Capita anche per ogni altro aspetto della nostra esistenza.

Non sai niente, non capisci niente, non hai sentimenti, non sei tollerante, non sei caritatevole? Bene, hanno creato un mondo per te. Puoi disseminare dubbi, interrogativi, odio, minacce e in escalation minacce di morte. Vetriolo, già. Tutto in forma anonima, potendo contare su una centuria e poi su una legione e poi su legioni che ti seguiranno.

E così Tom Foley, 38 anni, inglese, 48 test arbitrati, molti di più nella Premiership Tmo della finale Sudafrica-Nuova Zelanda (il match del cartellino rosso a Sam Cane) ha detto basta: niente più rugby internazionale, solo quello “domestico”, seguendo la via tracciata la settimana scorsa da Owen Farrell, capitano dell’Inghilterra.

Non abbandonano la dimensione in cui sono cresciuti, per la quale hanno lavorato, hanno fatto sacrifici. Preferiscono tornare a una sfera più umana (nel loro sport e nell’alveo della famiglia), non esporsi più agli avvoltoi appollaiati sui rami di tutto il mondo perché non è piacevole sentir minacciare di morte se stessi o la propria famiglia. Da chi, poi?

 Sono momenti in cui viene la voglia di invocare un Sant’Ufficio che blocchi questo dedalo, senza fine e senza uscita, di insulti, di critiche feroci che fanno breccia. E la realtà è che sarebbe possibile se chi dirige questi canali di comunicazione (il mio modo di esprimermi è primordiale, lo so) montasse una guardia che non monta, se un garante intervenisse deciso, o forse se solo i veri media, i giornali e le televisioni, non  subissero questa dimensione, non la temessero, e tornassero a esercitare quei canoni di cultura, educazione, formazione, libertà, ironia e, diciamolo, autorevolezza. Sono andati avanti con successo per decenni. E secondo me era meglio.

Chi non vuole disperare, chi continua a pensare che la zattera della Medusa su cui siamo finiti è abbastanza robusta e le provviste sufficienti a sopravvivere ancora per un poco, può dire che i casi di Farrell e di Foley possono coincidere con un bivio: da oggi chi ama il rugby e lo sport sa che non deve più lasciarsi tentare da un intervento, anche episodico, anche sporadico, e deve tornare a vivere con la serenità e l’ineluttabilità di un tempo quando un episodio – contestato, dubbio, scandaloso – era un attimo fuggente su cui accapigliarsi di fronte a una birra, una bottiglia di bianco o un calvados.

Fermateli, fermatevi. Lo sport è già abbastanza comprato, venduto, rivenduto, anabolizzato oltre ogni misura perché venga fatto a brani da chi ha solo odio da offrire, eredi bastardi e estranei di chi ha nutrito solo amore.

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