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Dewaldt Duvenage, a 35 anni, è stato sabato uno dei protagonisti della rimonta del Benetton contro gli Ospreys

Dagli archivi di Allrugby (numero 179, aprile 2023), un’intervista di Federico Meda con il numero 9 sudafricano, arrivato alla sua sesta stagione in maglia Benetton.

Dewaldt, per tutti Dedè, ha un Law degree, una laurea in Legge, che spera di far fruttare nei prossimi anni, ma le avventure imprenditoriali in essere quando è arrivato in Italia (un’agenzia di recruiting per lavori domestici) sono state liquidate, mentre quelle in divenire (l’import export di vini…) non si sono concretizzate. È rimasto il rugby, cinque stagioni molto intense, sul lato sportivo ma anche umano: “Io vivo a Silea, una piccola realtà. Ottimo stile di vita, in cui finisci per conoscere tutti e battezzi qual è la tua pasticceria o il tuo pastaio preferito. È bello fare parte di una comunità. E quella del rugby è uguale: si gioca e ci si allena con Treviso ma poi si va nei campi delle squadre del territorio, si fanno allenamenti mirati. Ecco, penso che l’entusiasmo e la voglia di imparare degli allenatori e dei ragazzi in queste sedute siano la miglior cartina di tornasole del vostro movimento. Il tutto in un paese in cui promuovere il rugby è difficile: football is number 1”.

Viene quindi da chiedersi cosa manca a noi italiani, non solo al cospetto dei sudafricani, per fare quel tanto atteso salto di livello, magari già dimostrato in campo ma non nei risultati: “I bambini italiani sono elettrizzati dal rugby ma per continuare ad avere gente che si avvicina al nostro sport abbiamo bisogno di risultati, di squadre vincenti. Ma anche di completare il processo di crescita. Gli italiani hanno una grande dote: sapersi emozionare o giocare sulle emozioni. Se usi questa caratteristica positivamente puoi andare oltre le tue possibilità. Senza porti limiti. Ma al contrario, in negativo, troppa emotività crea problemi nel recepire il percorso che porta a essere una winning side. Ad esempio troppa pressione su una singola partita crea poi, in caso di sconfitta, una reazione esagerata da parte del pubblico, dei media e, di conseguenza, degli stessi giocatori. Il rugby è fatto di insegnamento, esperienza, winning habits, sconfitte… tutto è importante. Venendo da una nazione di fanatici per il rugby, in cui hai una rugby community a scuola e anche fuori da scuola, mi è abbastanza chiaro cosa marchi le differenze tra i due modelli”.

Dewaldt è come un professore, è difficile mettere in dubbio le sue parole, sembrano sempre frutto di una riflessione o di un ragionamento già vagliato dal metodo scientifico: quindi, visto che condividono lo stesso ruolo, ci siamo chiesti che cosa pensi della recente decisione del suo compagno di squadra, Manfredi Albanese, di dire addio all’alto livello a fine [della scorsa] stagione.  “Gran giocatore, e con l’addio di Callum Braley all’attività internazionale si era creato spazio anche per lui. Che però voglia perseguire qualcosa di diverso e non solo dedicarsi allo sport. Lo capisco, perché mi sono laureato mentre ero già professionista e so quanto è difficile. Sembra di essere di fronte a un bivio perché fare entrambe le cose al massimo è davvero complicato. Io forse sono stato fortunato perché sono rapidamente entrato nel sistema di sviluppo professionale sudafricano. Il cui obiettivo è di aiutarti a trovare un equilibrio tra studio e carriera. Magari facendo dialogare club e ateneo, perché tutti si è “allo stesso tavolo”. Aiuta anche allenarsi nella stessa struttura in cui si studia, lasciando poi spazio al tempo libero. In questo, la scuola italiana non contempla, nelle ore curriculari, lo sport ad alto livello e costringe tutti a praticarlo in altre sedi e altri orari… Tornando alla scelta di Manfredi, tutti pensano che giocare a questo livello sia allenamento e partita. Dimenticando il lavoro di preparazione e revisione delle partite, il lavoro in palestra e quello extra”.

Da quando è arrivato Dedè i concorrenti non sono durati più di due stagioni, è sempre riuscito a ritagliarsi molto spazio – anche in virtù dell’assenza di impegni internazionali – passando dal regno di Kieran a quello di Bortolami senza scomporsi più di tanto. “Due personalità molto differenti ma brave a far crescere i giovani. È molto migliorato tutto in biancoverde, anche con Andrea Masi e Calum McRae, basta vedere le statistiche in difesa, i margini con le altre si sono molto assottigliati. Per quanto mi riguarda, a me piace mettere la mia esperienza a disposizione di gente come Ale Garbisi, che ha un ottimo potenziale, o confrontarmi con uno come Sam (Hidalgo Clyne, che ha firmato fino al 2025, ndr) e l’arrivo l’anno prossimo di Andy (Uren, da Bristol, contratto fino al 2026, ndr) creerà una buona competizione nel ruolo”.

I numeri di Duvenage a Treviso

2018/2019

1.627 minuti (26 partite, 85% titolare) media 63’

Gli altri, nel ruolo: Gori, Tebaldi, Bronzini, 1.170 minuti in totale

2019/2020

706 minuti (12 partita, 92% titolare), media 59’

Gli altri, nel ruolo: Petrozzi, Trussardi, Tebaldi 1.086 minuti in totale

2020/2021

1.194 minuti (18 partite, tutte da titolare), media 66’ (18 partite)

Gli altri, nel ruolo: Braley, Petrozzi, Trussardi, 847’ in totale

2021/2022

895 minuti (18 partite, 78% titolare), media 50’

Gli altri, nel ruolo: Braley, Petrozzi, A. Garbisi 1.653’ in totale

2022/2023 (al 20 di marzo)

1.046, (17 partite, 94% titolare), media 62’

Gli altri, nel ruolo: Hidalgo Clyne, Albanese-Ginammi, A. Garbisi 967’ in totale

2023/2024 (al 3 dicembre)

63’ (3 partite, 0 da titolare), media 21’

Gli altri, nel ruolo: Andy Uren, A. Garbisi, Hidalgo Clyne, 623’  in totale

 

Nella foto Dewaldt Duvenage (Benetton Rugby)

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