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Il senso di Kolbe per la vittoria. Sei un fenomeno di intuito e velocità, senza le tue mete i Bokke sarebbero già tornati a casa, la stoppata sulla punizione di Ramos è stato un prodigio decisivo contro la Francia. Ma adesso devi rimanere lì, inchiodato sulla panca, inconsolabile, solo in mezzo al deserto della tua disperazione. Perché sei Cheslin Kolbe, un Prescelto, l’erede di Habana, ma hai commesso l’errore che potrebbe costare il Mondiale al Sudafrica. Una mano protesa per istinto: lo stesso che fa di te un eroe, ma che stavolta ti ha tradito. In avanti volontario, giallo, fuori per gli ultimi dieci minuti di gara. Con un solo punto, che vale una vita, da difendere. Senti di aver abbandonato i tuoi compagni quando più contava, e allora nulla di ciò che hai fatto ha più valore. E allora no, non guardi più la partita. La testa bassa, mentre Du Toit argina la marea nera, placca corpi e destini. Gli occhi chiusi, mentre Barrett sbaglia il calcio che avrebbe significato il sorpasso, la fine, la vergogna, lo stigma che dura una vita («Lo vedete quello? E’ Kolbe, quello che ci ha fatto perdere con gli All Blacks…»). Vorresti correre sul prato, invece è solo la tua mente che corre nel buio della coscienza, sulla ruota da criceto del rimorso. Come ho potuto, perché non mi sono trattenuto? Scuoti il capo, ti fasci le orecchie con l’asciugamano. Non vuoi sentire il rumore che fa la partita: un urlo può essere la liberazione o la condanna, un boato è una lancia nel cuore, un silenzio improvviso l’anteprima della disperazione. Dieci minuti, un’eternità. Dieci minuti, una partita nella partita: ma questa giocata al buio, isolato nel dolore, assediato da demoni e fantasmi. Fino al fischio finale. Fino a quando torna la luce, apri gli occhi, e guardi il punteggio sul tabellone.

(in realtà non è finita neppure lì: ripensate allo sguardo di Kolbe a match terminato: quella tristezza sollevata, quel sollievo contuso, quella mente che faticava a uscire dai crampi dell’autoflagellazione. Sorrideva, ma con tutta la paura del mondo ancora accesa dentro il cuore. E quel bacio alla medaglia, quella coppa maneggiata con timore. Quasi a pensare: è mia, ma non me la merito. E’ mia, ma la devo al caso, alla fortuna, al coraggio dei miei compagni. Un senso di colpa che impiegherà giorni, mesi, anni: non a scomparire, ma forse ad allontanarsi un po’ da cuore»).

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