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Il Sei Nazioni è sbarcato su Netflix. La piattaforma Usa ha lanciato dal 24 gennaio la docu-serie “Six Nations: Full Contact”, otto puntate dedicate all’edizione 2023 del torneo, con interviste a giocatori e allenatori, dietro le quinte, immagini inedite dagli spogliatoi e dai ritiri, oltre che spezzoni delle partite. Fin qui la cronaca. L’idea del documentario è di raccontare i cinque fine settimana del torneo, attraverso non solo i match. Si passa dagli stadi ai campi di allenamento, alla palestra, alle riunioni tecniche, fino a casa di giocatori e allenatori. Risulta interessante la scelta di far vedere alcune riunioni degli staff tecnici, i discorsi fatti dagli allenatori alle squadre e sprazzi di vita da spogliatoio.

Ellis Genge, nello spogliatoio, all’intervallo del match con l’Italia (Netflix)

Una chicca il modo in cui la Scozia svela la formazione titolare. Belle anche le interviste agli allenatori che in alcuni momenti fanno rivivere dal loro punto di vista quello che era accaduto in campo. Sicuramente il prodotto è ben confezionato, belle le riprese, spettacolari alcune delle fasi di gioco selezionate per raccontare le partite. Alla fine della visione, e in realtà anche durante, vengono però alcuni dubbi. Prima di tutto, non si capisce quale sia lo scopo di un prodotto del genere. Se è far conoscere il rugby a un pubblico più ampio, forse il gioco bisognava spiegarlo un po’ meglio. Si danno troppe cose per scontate, non si aiuta un neofita a comprendere quello che sta vedendo. Certo non si doveva e poteva fare un vademecum sulle regole – anche perché che noia – però nel racconto delle partite, anche solo spiegare perché a un certo punto si fanno i cambi e si può andare in panchina anche se si è fatta una prestazione mostruosa, o che cosa è e perché si fa una mischia o una rimessa laterale, avrebbe potuto rendere la serie di maggiore fruibilità per chi è a digiuno di palla ovale. Se, invece, la serie è per chi è già appassionato, aggiunge poco. Non è guardando Netflix che si sposta l’asticella del tifo di chi già segue il Sei Nazioni. È un ripasso prima del calcio di inizio dell’edizione 2024. Da ribadire comunque che è la serie è fatta bene, si lascia guardare e gli interventi degli allenatori sono la parte più interessante.

Finn Russel (a sinistra) e Marcus Smith alla “prima” della serie (Netflix)

Torniamo però ai dubbi. L’Irlanda è stata la vincitrice assoluta del torneo ma non è la protagonista della serie. Perché? Non ha concesso più spazio e tempo agli operatori di Netflix? È stata una scelta della regia? Se è vero che a volte le storie dei perdenti sono più interessanti di quelle dei vincenti, è altrettanto vero che una vittoria può anche essere l’occasione per creare un racconto epico. Ecco, di epico c’è ben poco nella serie e nel modo in cui la cavalcata vincente dell’Irlanda viene raccontata. Dei “verdi” emergono all’inizio solo Andrew Porter – su cui si punta soprattutto per gli aspetti umani del personaggio – e l’allenatore Andy Farrell. A loro si aggiunge solo alla fine il capitano e mediano di apertura Jonathan Sexton, al suo ultimo Sei Nazioni. La Francia e l’Inghilterra appaiono ma a volte un po’ defilate, soprattutto la seconda, e a emergere più che le squadre sono solo alcuni giocatori che sembrano scelti più per le storie personali che per altro, Gaël Fickou per la Francia ed Ellis Genge per l’Inghilterra. Quando il rugby, come viene solo accennato, è considerato lo sport di squadra per eccellenza, uno sport in cui la palla si può passare solo all’indietro, la scelta – questa sì di Netflix – di raccontare solo alcuni “personaggi” risulta un po’ dissonante. Anche perché la sensazione è che si punti a raccontare questi giocatori come “il caso umano”, l’outsider che ce l’ha fatta, più che come rugbisti professionisti ai massimi livelli.

Louis Rees-Zammit (Michael Steele, World Rigby/World Rugby via Getty Images)

Il Galles, che lo scorso anno era in piena crisi sia sul campo sia fuori – con uno sciopero dei giocatori che ha messo a rischio anche il normale svolgimento del torneo – è rappresentato soprattutto dal suo allenatore, Warren Gatland che, tra il veterano Dan Biggar e il giovanissimo Louis Rees-Zammit, fa la parte del leone e si “mangia” quasi tutto lo spazio dato alla sua nazionale. Di campioni come Alun Wyn Jones neanche si accenna il nome. Il racconto – o meglio i racconti – della Scozia sono forse i più interessanti e quelli realizzati meglio. Anche qui si lascia poco spazio al collettivo per concentrarsi su alcuni nomi ma il modo il cui sono presentate le loro storie risulta più completo, più profondo. Di Finn Russell e Stuart Hogg, in momenti e con tempi diversi, vengono fatti dei bei ritratti e anche l’allenatore Gregor Townsend appare una figura centrale. Sulla stampa inglese si è ipotizzato che il tanto spazio dato alla Scozia sia dovuto anche al fatto che la squadra ha concesso a Netflix maggiore accesso. Non abbiamo la risposta. E l’Italia? Che dire dell’Italia. Che forse un solo accenno ad Ange Capuozzo, tra l’altro con il suo nome che viene storpiato in riunione, non rende giustizia al suo valore in campo. Che l’ormai ex allenatore Kieran Crowley non aveva impostato male il suo lavoro, che il consulente Neil Barnes era più presente di quanto si potesse pensare e che forse scegliere Sebastian Negri e Stephen Varney per raccontare gli Azzurri è stata la scelta più facile dal punto di vista linguistico – per entrambi l’inglese è la prima lingua – ma più che sulle loro storie personali sarebbe stato interessante parlare della squadra e della sua mancanza di vittorie.

La foto sono di Netflix

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