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Inutile illudersi, per l’Italia sarà un altro torneo all’insegna della sofferenza. Condizionato dagli infortuni e dalle assenze. Anche se queste significano, per altri, nuove opportunità e per la squadra, forse, l’apertura di un’epoca diversa. A metà gennaio erano ancora più di dieci gli atleti indisponibili per la chiamata in azzurro, e per molti di loro l’assenza dai campi di gioco è destinata a protrarsi ancora a lun-go: Geldenhuys, Masi, Rizzo, Violi, Manici sono tutti fuori almeno fino alla fine del torneo mentre Gori, Allan, Leonardo Sarto, Furno e Ghiraldini hanno tutti avuto guai di varia natura, ma dovrebbero essere in qualche modo recuperabili, anche se non per le prime partite del torneo. Aggiungeteci che Vendit-ti, Campagnaro, Benvenuti e Castro negli ultimi tempi hanno giocato poco o pochissimo e che Morisi ha ripreso ad allenarsi solo intorno al 15 gennaio, dopo quattro mesi di stop, ed ecco la fotografia di una situazione che vede la squadra scopertissima in alcuni ruoli: soprattutto quelli di pilone sinistro, tallonatore, seconda linea e mediano di mischia.

A sinistra della prima linea, il ballottaggio è fra Lovotti e Zanusso, due esordienti. Mentre, se Ghiraldini non dovesse recuperare appieno, la maglia numero due se la giocherebbero Giazzon e Gega, altro de-buttante. Per quella numero nove infine (incrociamo le dita!) dopo Gori c’è solo Palazzani, “tertium non datur”.

Anche alle ali c’è poco da scialare. In questa prospettiva, Brunel e il suo staff tra dicembre e gennaio hanno visionato un bel numero di atleti, pescando a piene mani anche dal Campionato di Eccellenza, il che ne rilancia il ruolo e apre nuove prospettive per tutto il movimento. A patto che i protagonisti ne sappiano approfittare: gli standard del campionato, quelli fisici in primis, spesso sono decisamente di-stanti da quelli del rugby internazionale. Chi è stato chiamato dovrà dimostrare di essersi meritato la convocazione e che il rugby italiano ha ambizioni non solo al vertice.
Il rischio è quello di un torneo di interregno, fra infortunati, allenatori in partenza (Brunel e Berot, a fine stagione) e giocatori che hanno deciso di stare alla finestra, come Favaro. Il flanker ha chiesto di potersi prendere un semestre sabbatico, per risolvere una serie di problemi personali e fisici e per meglio adattarsi alla nuova realtà di Glasgow. A malincuore, e data anche la delicatezza dei suoi ricorrenti in-fortuni, la Federazione gli ha dato l’OK.

“Difficile sarà difficile, lo è sempre – dice Giampiero De Carli, cui spetta il delicato ruolo di fare da tramite tra la vecchia e la nuova gestione: lui è uno di quelli che la prossima stagione ci saranno ancora -. In queste situazioni, la prima cosa che conta sono gli obiettivi personali di ciascun giocatore, la voglia di emergere, le motivazioni, il desiderio di battersi per sé e per la squadra. Se cominciamo a sottoli-neare che l’allenatore andrà via alla fine del torneo, che manca Tizio e che Caio ha giocato poco vuol dire che siamo già alla ricerca dell’alibi. I problemi ci sono: molti ragazzi sono stati infortunati, altri do-po il Mondiale hanno giocato pochissimo, altri ancora sono esordienti assoluti. La cosa più importante sarà riuscire a mettere tutti in una condizione fisica e atletica vicina a quella del Mondiale. Perché è chiaro che quando peschi da situazioni diverse c’è anche il rischio che i parametri non siano gli stessi per tutti. Alla Coppa del Mondo la condizione atletica è quella che ci ha permesso di fare bella figura con l’Irlanda e di venire a capo di due partite difficili come Romania e Canada. Se gli aspetti tecnici e tattici, per tanti motivi, possono sfuggire, almeno in parte, al nostro controllo, quelli atletici devono es-sere impeccabili. Se lasciamo che gli altri prendano il sopravvento anche da quel punto di vista, allora è inutile parlare”.
L’esordio, Francia e Inghilterra nel giro di una settimana, sarà da brivido.

“Per noi non ci saranno partite facili, è un’ovvietà, ma è sempre bene ricordarlo – dice De Carli -, l’esordio a Parigi, la prima in casa contro l’Inghilterra ci mettono di fronte a due squadre contro le quali per vincere, o per fare bella figura, dobbiamo giocare la partita della vita. E’ quello che mi aspetto: giocatori pronti a dare tutto, a combattere su ogni pallone. Ci sono molti esordienti e ragazzi che arri-vano dal Campionato di Eccellenza, abbiamo dato un segnale importante a tutto il movimento che speriamo venga colto e sfruttato nella giusta maniera”.

Difesa e battaglia sui punti d’incontro restano la nostra cifra tecnica più importante: tra Mondiali e par-tite di preparazione l’Italia è la squadra che è riuscita a rallentare di più l’uscita de palloni da ruck e maul degli avversari.

Per quanto riguarda il gioco d’attacco, invece la Nazionale azzurra anche negli scorsi mesi si è confer-mata la squadra cui riescono meno break (due di media a partita), in compenso i nostri hanno provato a giocare a largo la metà dei palloni conquistati in mischia. Con scarsi risultati, però, vista la difficoltà dei nostri trequarti nel battere le difese avversarie. La Scozia non è mai andata a largo per esempio, né da mischia né da touche.

Senza un estremo dotato di “gambe” (Odiete può essere la soluzione?), e senza un riposizionamento adeguato, per la squadra azzurra resta problematico anche il rilancio del gioco sui calci di spostamento degli avversari. Il “ping pong” al piede ci ha sempre visto penalizzati (vedi la meta di Maestri, su con-trattacco di Spedding, nello scorso Sei Nazioni, contro la Francia, e i contrattacchi gallesi nel match successivo, pure all’Olimpico).

In quattro stagioni Brunel non ha trovato né l’equilibrio che auspicava, né la capacità di imporre il proprio gioco, come avrebbe voluto. Si deve accontentare di puntare tutto sulla difesa, ma solo dopo aver sperimentato, nel 2014, il fiasco della tournée alle Fiji, Samoa e Giappone, preceduto da un cuc-chiaio di legno nel Sei Nazioni con addirittura 21 mete al passivo, contro le 8 del 2013.

“Forse negli ultimi anni abbiamo concesso troppe deroghe a quelli che a livello internazionale ormai sono parametri e comportamenti obbligatori e riconosciuti – punta il dito De Carli – il rugby mondia-le, ci piaccia o no, è giocato da super atleti, non basta più essere buoni giocatori, ci vuole molto di più. Sono i dettagli a fare la differenza e piano questo concetto va inserito anche nel nostro movimento, nei singoli individui, nelle club, in tutte le squadre”.

Gianluca Barca

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