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“L’uomo che guardava passare i treni” è un romanzo tra i più famosi di Georges Simenon. È stato pubblicato nel 1938 e la prima edizione italiana è del 1952. E se anche noi, noi rugbisti intendo, appartenessimo alla categoria di quelli che i treni li hanno visti passare, senza salirci e senza accorgersene?

Impegnati come siamo in infinite, e peraltro legittime, discussioni sulla formazione, sulle accademie, sul loro numero e qualità, su chi siamo e cosa vogliamo essere, viene il dubbio che qualche volta dimentichiamo i fatti.

Prendete questa formazione: Lo Cicero (Racing), Festuccia (idem), Castrogiovanni (Leicester), Dellapè (Biarritz), Bortolami (Gloucester), Sole, Mauro Bergamasco (Stade Français), Parisse (idem), Griffen (poi, nella ripresa Troncon), Pez, Masi (Biarritz), Mirco Bergamasco (Stade Français), Canale (Clermont), Robertson e Bortolussi (Montpellier). Senza offesa per alcuno credo sia difficile contestare il fatto che per qualità dei singoli, per la loro maturità atletica (Bortolami all’epoca era capitano del Gloucester, “Castro” l’anno prima era stato eletto miglior giocatore della Premiership, e Sergio aveva 24 anni), quella squadra fosse incomparabilmente più forte di quella di oggi. Se fosse possibile mettere i due “quindici”, quello di allora e quello attuale, di fronte sul campo mi sentirei di scommettere che quella più vecchia vincerebbe a mani basse.

Bene, i nomi appena elencati sono quelli di coloro che nel settembre 2007, alla Coppa del Mondo in Francia (allenatore Berbizier), batterono con fatica la Romania (24-18), furono travolti (comme d’habitude 76-14) dagli All Blacks e uscirono dal torneo fra le lacrime, sconfitti 16-18 dalla Scozia a Saint Étienne.

La stragrande maggioranza di loro, eccetto forse un paio, oggi non farebbe fatica a indossare la maglia azzurra nella squadra di O’Shea: undici su 15 giocavano titolari in Francia o in Inghilterra. Col senno di poi, è stata una generazione eccezionale. Eppure cosa ci resta di quegli anni? Una vittoria a Murrayfield, nel famoso match dei tre intercetti, quella rocambolesca col Galles, dopo il malinteso fra l’arbitro e i nostri avversari sul fischio finale del match, due successi in Argentina (2005 e 2008) che allora ci sembrarono quasi un fatto di routine, e che invece avremmo dovuto considerare eccezionali, un 19-23 con l’Inghilterra (2008, coach Mallett), un altro paio di sconfitte di misura, sempre con gli inglesi (12-17, ancora Mallett, al Flaminio, e 15-19, Brunel all’Olimpico sotto la neve), un 11-16 a Dublino, al Croke Park. Ma negli stessi anni, più o meno con gli stessi giocatori, ci furono anche batoste pesanti: un 3-39 con la Francia a Roma, un 8-50 fra i fischi del pubblico, sempre con i Coqs, al Flaminio, un 47-8 al Millennium contro il Galles.

Nel mondo immobile del rugby internazionale avevamo fatto dei passi avanti che forse non abbiamo saputo apprezzare fino in fondo, poi abbiamo provato a volare più in alto e come Icaro ci siamo bruciati le ali. Perché o fai parte dei grandi o è come stare sull’ottovolante – dice O’Shea – un momento sei in cima, quello dopo precipiti in basso. Oppure, più semplicemente, noi italiani di rugby non capiamo niente, come diceva Mallett a chi lo criticava. Brunel risponderebbe con una sola formula: “inesplicabile”. Scegliete voi la soluzione che vi aggrada.

Gianluca Barca

 

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