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Gladiatori fragili, disposti a confessarlo. Come Rory Lamont che da quando, nel 2013, è stato costretto a lasciare il rugby per infortuni che non gli hanno dato tregua, ha avuto la compagnia dei dèmoni. L’hanno portato a pensare al suicidio. “Il rugby è perfetto per mascherare le insicurezze – ha detto lo scozzese – quando non c’è più, uno torna a essere un bambino vulnerabile, avverte di essere una batteria spenta”. Sono le parole disperate di chi, nella solitudine, inizia il viaggio nel delirio. Capire, in questi casi, è interrompere questo cammino, bloccarsi prima che il terzo passo porti all’autodistruzione. Rory l’ha capito. Meno male.
E’, in gradi diversi e meno gravi, il caso di Joe Marler, il pilone degli Harlequins, che finisce sul banco degli imputati per aver dato dello zingaro a Samson Lee (“lo volevo fare incazzare”) e ora per aver preso a calci un avversario durante la semifinale di Challenge con il Grenoble. “Ho capito di aver bisogno di un aiuto professionale per poter andare in campo e riuscire a mantenere la calma”. Traducendo, uno psicologo – Jeremy Snape, ex giocatore di cricket – per far stendere sul lettino questo pilone dall’aspetto minaccioso, dai look stravaganti: guerriero della strada, hell’s angel, feroce figurante nei primi Mad Max. Per aiutare coloro, evidentemente sempre di più, che si sentono in difficoltà dal punto di vista psicologico, la Rugby Players’ Association ha messo addirittura a disposizione degli atleti una linea telefonica che funziona 24 ore su 24.
E pensare che una volta a chi sembrava provenire dal reparto agitati, veniva somministrata un’erba che poteva avere effetti miracolosi, la camomilla.
G. Cim.

Nella foto di David Rogers/Gety Images, Rory Lamont contende palla a Aurelien Rougerie durante il match in cui subì un grave infortunio

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