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Erika Morri racconta lo spirito di quella prima avventura Mondiale, dove in squadra si parlava prevalentemente il dialetto trevigiano, ma anche quelle emiliano, milanese e romano.

Le sventurate risposero. Ma qui non si tratta della seduzione dello sciagurato Egidio bensì dell’inarrestabile attrattiva di un pallone ovale. E le monache non sono di Monza bensì quelle di un convento di Ferrara che ospitarono le ragazze della nazionale italiana femminile di rugby in preparazione per il Mondiale del 1991.

La squadra degli Usa, vincitrice dalla prima edizione del Mondiale femminile

“Fu Deborah Griffin, da quest’anno prima donna presidente della RFU, a promuovere quella manifestazione, il cui riconoscimento ufficiale da parte di World Rugby è avvenuto solo nel 2009 – racconta Erika Morri, oggi consigliera federale, e ala della squadra azzurra che prese parte a quella Coppa del Mondo inaugurale -. Il torneo fu organizzato in Galles da quattro ragazze del Richmond Women’s Rugby Club – spiega Morri -. Non c’erano altri traguardi che provare a divertirci insieme. Noi ottenemmo la legittimazione dalla Fir un mese prima di partire, fino a quel momento eravamo state affiliate all’Uisp. Voglio ricordare anche che, a lungo gli arbitri della federazione avevano il divieto di dirigere partite femminili. Insomma in quell’anno rompemmo un tabù e ottenemmo non solo il risultato di “esistere ufficialmente”, ma il primo articolo di peso sul rugby femminile, apparso sul Venerdì di Repubblica, “Donne da Mischia”, nell’aprile del 1991. Il nostro allenatore era Andrea Fabbri, lui e il medico Marco Fogli sono gli autori del primo libro pubblicato in Italia sul rugby femminile. Ci preparammo in convento e facemmo un’amichevole a Castel San Pietro. La parte esilarante è che non avevamo, ovviamente, divise ufficiali, così, prima della partenza, qualcuno in federazione andò a vedere se trovava qualcosa nei magazzini del Coni. Dai quali emersero delle tute verde shocking, credo fossero roba della federtennis.

Erano tute talmente scintillanti che ci vergognavamo di indossarle. Ma siccome la bellezza è negli occhi di chi guarda, il nostro outfit fu preso da tutte le avversarie come l’ennesima prova dell’Italian fashion e finimmo per essere invidiatissime per dei capi che non avremmo mai messo, fosse dipeso da noi. Lo stesso accadde con il vestito per il terzo tempo finale del Mondiale. Ci mettemmo tutte d’accordo di portare un abito da sera nero. Ognuna il suo. Anche quello fece un figurone in mezzo alle giacchette e alle gonne plissettate delle altre. Forza del mito della moda italiana”.

Erika Morri aveva 19 anni, era studentessa del primo anno all’università di Bologna e veniva da una famiglia di sportivi: il padre Alfredo era stato tallonatore (poi mediano di mischia) del Bologna e fondatore della Rugby Reno. La mamma Tina Natoli giocatrice di basket di alto livello e poi importante dirigente della Fortitudo, società bolognese di ginnastica ritmica.  “Ma a spingermi al rugby non fu mio padre, ma una compagna degli scout – racconta Erika -. Mio padre ovviamente non si oppose – “è stata la passione della mia vita, come potrei non approvare” -, mi diceva. Ma a spingermi ad allenarmi a puntare ancora più in alto era mia madre. Io prima di giocare a rugby lanciavo il giavellotto, avevo per allenatrice Marinella Vaccari, specialista Fidal dei lanci che ha portato tanti atleti e atlete ai livelli massimi. Per un periodo ho cercato di combinare le due discipline. Mio padre mi diceva che era troppo, mia madre, un’agonista vera, mi spingeva a fare entrambe. Alla fine è stato solo rugby”.

E la partecipazione alla prima Coppa del Mondo.

“Era tutto molto genuino: ci lavavamo le maglie da sole, anzi a farlo erano le madri di due ragazze della squadra, Flavia Sferragatta e Gioia Buratto. Le russe non potevano pagarsi l’albergo e vendevano caviale, vodka e altri gingilli portati dal loro paese per avere qualche spicciolo con cui mantenersi. Erano fisicamente enormi, ma tecnicamente molto acerbe e la nostra mischia le spingeva indietro. Vinsero a sorpresa le statunitensi, che nemmeno sapevamo, all’epoca, giocassero a rugby.  Batterono in finale l’Inghilterra e in semifinale la Nuova Zelanda, le cui giocatori si erano presentata al Mondiale con le tempie rasate e scolpite: la felce da una parte, la scritta NZ dall’altra. Rimanemmo allibite. La nostra squadra era composta da quasi tutte ragazze di Treviso, ma ce n’erano anche sette di Bologna, per noi fu un successone”.

La sfilata delle azzurre alla cerimonia di apertura

Capitana era Mansueta Palla del Benetton.

“…e il discorso pre partita lo faceva prima in dialetto veneto, poi in italiano. Anche le giocate avevano nomi nel dialetto di Treviso”.

Era già un rugby molto fisico?

“Era rugby, ma non c’era la ricerca dei muscoli che c’è adesso. Le inglesi, le russe, le olandesi erano grosse, lo sono sempre state di natura. Le altre squadre lo erano molto meno”.

Quando è arrivata la svolta in Italia, che ci ha fatto fare il salto di qualità?

“Con l’intuizione di Maria Cristina Tonna e del settore tecnico FIR, di organizzare, a partire dalla stagione 2004/2005, una Coppa Italia Seven, su metà campo, meta sulle linee di touche. Anche chi aveva poche ragazze poteva provare a giocare. Nacquero un sacco di squadre, comprese le Valsugirls”.

Erika ha giocato 21 anni, ha preso parte anche alla Coppa del Mondo del 2002 in Spagna e ha un rimpianto: “quello di non aver preso parte al Mondiale 1994 in Scozia: l’International Board non ne approvò ufficialmente l’organizzazione e l’Italia scelse di non partecipare inviandoci in tournee in Spagna e Scozia”.

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