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“Mi sono fatto male una prima volta nel 2014, crociato. Dopo sei mesi sono tornato a giocare ma mi sono reso conto subito, e con il ginocchio è un classico, che non era la stessa cosa. Si infiammava spesso per via di un intervento che aveva interessato anche il tendine rotuleo. Dopo un’operazione è bene stare attenti, dosare meglio i carichi e ascoltare il proprio corpo. Quello che non ho fatto l’anno scorso. A settembre mi sono fatto male di nuovo e si pensava fosse solo il menisco. Quindi pulizia in artroscopia e poi torno subito a giocare. Però dopo la prima partita il ginocchio si gonfia tantissimo e si nota una ritenzione idrica esagerata, all’altezza della la tibia. Non era solo menisco, l’articolazione del ginocchio si era lasciata andare, era lassa. Il dottore, a Brescia, è stato chiaro: o ti operi o puoi continuare a giocare ma sappi che dovrai convivere con dei problemi. La realtà è che una persona normale poteva tranquillamente non operarsi ma noi, abituati agli sforzi, ai carichi di lavoro e agli impatti delle partite, no. Quindi operazione, su una recidiva, su un ginocchio sofferente et voilà, i tempi di recupero che si dilatano. C’entra l’età, ovviamente, altrimenti sette mesi sono troppi. Ma anche la mia voglia di tornare al massimo e non rischiare nulla”.

Come ci si sente a stare fuori a lungo, dopo essere stato un indistruttibile per tanto tempo?
Onestamente? Bene. Perché ci sta. Infortuni seri li ho subiti solo verso i trent’anni, nonostante un ruolo che ti espone a seri rischi. E poi di solito le carriere sono inframezzate da infortuni o cali di forma. Io per fortuna non ho mai sofferto grandi up&down e quindi non voglio lamentarmi più del dovuto.

Rispetto a quando hai iniziato si gioca (leggermente) di più ma quello che è veramente cambiato sono i ritmi, gli impatti, le velocità del rugby. Il dibattito è aperto, si vorrebbe ridurre il calendario per preservare voi atleti. L’ultimo a parlarne è stato Warren Gatland, preoccupato per le conseguenze a lungo termine. Cosa ne pensi?

Sinceramente non saprei dove tagliare, in termini di calendario. Tutte le fasi della stagione hanno un senso e uno specifico obiettivo. E se il rugby è cambiato siamo anche noi giocatori ad aver seguito questa evoluzione. Io mi alleno in maniera profondamente diversa da quando ho iniziato. L’idea che mi sono fatto è che una buona gestione del parco giocatori è la via che dobbiamo seguire. Rose adeguate, gestione manageriale di turnover, infortuni, rientri, recuperi. La soluzione non è giocare di meno, è gestire meglio la coperta corta, come nel caso dei periodi neri sul fronte infortuni di noi trevigiani.

Tornando a te, sensazioni dal campo?
Buone, però sono un po’ vecchio e non bastano le sedute in palestre, gli allenamenti, il fitness. Il ritmo gara lo recuperi solo giocando tante partite. Però già dopo la seconda partita ho avuto sensazioni migliori. Poco da dire: devo lavorare più degli altri.”
Altri che stanno crescendo. La concorrenza in squadra e in Nazionale sembra essere aumentata. Di colpo.
“Siamo tanti, effettivamente. Ma posso sempre giocare anche in seconda! A parte gli scherzi è un’ottima notizia, per me e per tutti. Siamo spinti a dare di più. Sono piacevolmente sorpreso dei prospetti che si affacciano in prima squadra, in Ghirada e in questi test.

A proposito, sei a quota 99 cap. Che pensieri ci sono intorno all’azzurro?
È uno degli obiettivi che mi sono dato. Ma nell’ideale road map impostata con lo staff non è ai primi posti. Ora devo trovare una collocazione in squadra, fare bene a novembre, giocare la coppa, giocare in campionato. Essere una risorsa per questo nuovo corso trevigiano che mi piace molto. Poi, si vedrà.

Sei stato tanto fuori, hai giocato forse due partite prima di questo rientro dall’arrivo di coach Crowley. Cosa ne pensi?
Anche se i risultati non l’hanno testimoniato davvero, già la scorsa stagione abbiamo fatto un salto in avanti importante. Lo staff, guidato da Kieran, con i vari Bortolami, Ongaro e Galon ha garantito un’organizzazione di squadra e metodo di lavoro produttivo. La settorialità dei loro ruoli aiuta molto la crescita dei giocatori. Alla fine è come avere una persona dedicata, non avete idea di quanto conti. Quest’anno poi siamo partiti con il piede giusto e l’entusiasmo aiuta, è contagioso.

Questo clima ti riporta agli anni di Franco Smith?
In realtà no perché l’approccio di Kieran, rispetto a Franco, è molto diverso. Il coach sudafricano ha proposto e attuato un’etica del lavoro importante che abbiamo assimilato bene. Infatti i suoi giocatori hanno avuto successo anche in grandi club all’estero e fatto la fortuna della Nazionale. Ma era anche un accentratore, mentre Crowley è l’opposto: delega molto allo staff, responsabilizza tutti e pone grande attenzione al benessere del giocatore al di fuori del campo.

Tra Smith e Crowley ci sono stati anni complicati. Ti è capitato di fare il capitano ma non era esattamente il tuo ruolo.
Per essere capitano è meglio possedere determinate caratteristiche. Non tanto di gioco ma caratteriali e di comunicazione. Io non le possiedo a livello innato. Il problema successivo è che ho fatto lo skipper in un momento particolare per la squadra – le cose non andavano bene – e per me stesso, poiché ero reduce da un serio infortunio, il primo della mia carriera. Quando devi guidare i compagni, una squadra, non puoi permetterti di pensare ad altro, come al ginocchio operato o alla tua forma, se non ti senti al massimo. Bisogna essere sinceri, prima di tutto con sé stessi, per svolgere quel ruolo. Però…

Però?
Nonostante le difficoltà è stata una bella sensazione. Mi ha arricchito molto e nella mia carriera lo considero un ‘highlight’ importante.

Quindi lo rifaresti?
Subito, anzi spero che per ragioni di Nazionale o altro l’occasione possa capitare presto. Sarei più preparato rispetto al passato e in una situazione di squadra diversa.

A proposito di “highlight”, quali sono le pietre miliari o le svolte fondamentali per la tua carriera?
Sono cresciuto in maniera progressiva. Senza accelerazioni o frenate improvvise. Passare a Calvisano è stato importante, ho capito che avrei concentrato la mia vita sul rugby e ho iniziato a percepire un po’ di pressione. Aumentata con l’esordio in Nazionale poco tempo dopo. Ecco, soddisfare le attese di famiglia, amici, compagni di squadra, tifosi e coach è importante. Ma soddisfare i sogni di quando sei bambino è incredibile.

Poi Treviso, ma potevi andare ovunque. Dove?
Non posso dirlo ma avevo tante offerte da club di Top 10. Ma io avevo trovato Treviso la realtà più seria e affidabile tutte le volte che li avevo incontrati. Quindi è stata una scelta ponderata ma non troppo complicata.

E mai rinnegata. Dall’estero ti volevano in tanti.
Sì ma non ho rimpianti. C’era l’occasione ma sono contento di essere rimasto nella Marca. È stata la scelta giusta e la rifarei.

A proposito di scelte: non sei un giocatore da social network. Castrogiovanni ha recentemente dichiarato che si trovava estraneo alla nouvelle vague fatta di storie su Instagram e followers. Tu cosa ne pensi?
Sono uno cui piace molto l’uso della parola, anche se in certi periodi sono stato descritto come un taciturno. Quindi preferisco la chiacchiera alle conversazioni virtuali. Ma questa tendenza all’uso dei social network la trovo normalissima. Come trovo che i ragazzi nel nostro ambiente ne siano attratti e partecipi. Certo, suonerà banale, ma l’importante è utilizzarli nel modo più appropriato. Infatti non è escluso che per necessità, o semplice curiosità, anche io inizi a utilizzarli con più frequenza.

Il tuo mito, è risaputo, è Zinzan Brooke ma chi sono le persone che ti hanno più aiutato, colpito, mostrato come migliorarti?
Parisse, dal punto di vista tecnico e del gioco. Abbiamo giocato insieme fin dalle giovanili, è ovvio che sia diventato un punto di riferimento. Idem Leonardo Ghiraldini. Abbiamo fatto la carriera a braccetto tra nazionale, Calvisano e Treviso. A livello caratteriale un punto di riferimento e sul campo uno su cui contare sempre. E poi la generosità, dentro e fuori dal campo, di Andrea Masi.

Un avversario?
Jonah Lomu, incontrato a Cardiff in coppa nel 2005 con la maglia di Calvisano. Lui ha cambiato il rugby e poterci giocare contro, anche solo per qualche minuto (sono partito in panchina) e in una fase calante della sua parabola, ha significato tantissimo.

E nel tuo ruolo?
Richie McCaw. Giocatore a 360°. Comprensione del gioco pazzesca e poi attacco e difesa allo stesso livello. Fuori categoria. Tra gli “umani” mi è sempre piaciuto il gallese Martyn Williams. Fisicamente concedeva qualcosa ma a livello di linee di corsa e work rating era incredibile. Davvero un giocatore intelligente.

Quanto pensi di giocare ancora?
Toccando ferro il ginocchio reagisce bene e non si è ancora mai gonfiato. Quindi penso positivo e non so darmi un limite. Mi sto guardando intorno per il dopo, il che è già un segnale. Abbandonati definitivamente gli studi universitari (Economia aziendale) mi piacerebbe rimanere nell’ambiente. Ma come allenatore non mi ci vedo, magari come preparatore atletico, sfruttando le mie competenze e la passione per il lavoro fisico e in palestra.

Nella foto (Daniele Resini/Fotosportit), la grinta di Zanni im maglia della Nazionale

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