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Alla vigilia del secondo derby della stagione, proseguiamo il dibattito virtuale fra i dirigenti del Benetton Treviso e delle Zebre. La parola, oggi, a Andrea Dalledonne, manager che da un oltre anno sta cercando di rilanciare le Zebre.
I risultati iniziano a vedersi, ma lui non è abituato ad accontentarsi.
di Stefano Semeraro (da Allrugby 130).

Andrea Dalledonne, l’amministratore unico delle Zebre, è specializzato in salvataggi. Bolognese, 63enne, amministratore delegato di Carimonte Holding, ha rimesso in carreggiata, tra l’altro, la 1000 Miglia (importante manifestazione di auto storiche, ndr): un bilancio, a dodici mesi abbondanti di distanza dalla sua nomina, si può tentare, non crede?
«Io sono sempre restio a parlare, nella mia cultura prima si fa e poi si parla. Lei vuole un bilancio, io rispondo: molte cose fatte, partendo da zero. Il mio pensiero, come è noto, diverge da quello che sento più in voga nel rugby e un po’ in generale dello sport.
Per me prima deve venire una società forte, poi seguirà una squadra forte che potrà vincere qualcosa. Prima l’organizzazione poi, forse, i risultati sportivi. Abbiamo cercato di costruire qualcosa che abbia una mission, un obiettivo strategico. Non ci siamo ancora riusciti del tutto, in primo luogo perché era una startup, in secondo luogo perché le risorse sono limitate e quindi anche le possibilità di investire. Dico banalità, ma con a disposizione i soldi della Juventus, il discorso sarebbe diverso».
Che cosa la lascia perplesso, dal punto di vista commerciale, dell’organizzazione e gestione aziendale, la realtà dello sport italiano?
«Io nello sport sono l’ultimo arrivato, al massimo in precedenza ho avuto un’esperienza con la 1000 Miglia, ma per ora nella mia vita professionale, che si è svolta essenzialmente in aziende a respiro internazionale, mi sono reso conto che se non hai un obiettivo strategico, e un piano di gestione delle risorse orientato a quell’obiettivo, è molto difficile arrivare da qualche parte. Nello sport la mia impressione è che sia molto difficile avere un obiettivo di questo tipo, e quindi un piano per realizzarlo. Oltre a ciò, ho cercato – disperatamente – manager di valore con esperienze di eventi sportivi, ma non ne ho trovati. Ora li sto formando da solo, e questo richiede tempo, fatica, impegno. Inevitabilmente si fanno molti errori.
Ogni azienda è un processo, qui il processo è l’evento, quindi servono formazioni e gestioni diverse, che però mancano completamente. Detto questo, cerchiamo di fare con quello che abbiamo…».
Lei in questo hanno ha ‘studiato’, visitando realtà sportive all’estero. Che cosa ha imparato?
«Al presidente di Bristol, società che ho visitato e mi ha impressionato molto, per prima cosa ho chiesto quante persone ha in ufficio: mi ha risposto 35, che diventano 250 con la gestione del campo e degli eventi. Ecco, per me sta tutto lì».
Qual è il loro obiettivo strategico?
“Sempre il presidente del Bristol mi ha spiegato: ‘il nostro piano oggi è unire rugby e calcio’. Il rugby deve crescere, certo, e del calcio non possono fare a meno, perché vanno a vederlo in 30 mila. Ora stanno partendo con il basket. In altre parole, hanno un’offerta multitasking, tengono la gente nella loro struttura, vendono cibo, il loro marchio, e magari chi va lì per vedere il rugby si ferma anche per il basket. Non è che poi abbiano tanti sponsor più di noi. Mettere il logo sulla maglia di Bristol, o di Glasgow, non costa poi tanto di più che metterlo su quella delle Zebre: è tutto il resto che hanno loro, che ci manca. E un modello
su cui ragionare.“
Le due franchigie italiane come possono sperare di competere allora con chi ha alle spalle una tradizione, una struttura organizzativa e risorse finanziare enormemente superiore? Ed esiste, questa possibilità?
«Secondo me se riusciremo ad attivare un percorso con un obiettivo a 5 anni, che non può essere solo sportivo, potremo riuscirci. Dobbiamo trovare la base. La mia prima domanda quando arrivo in un’azienda è: cosa fanno i competitor? Che è quello che ho fatto visitando Bristol, Glasgow e altre realtà. Io le loro risorse non le ho, ma la domanda che si dovrebbe porre il movimento è: viene prima l’uovo o la gallina? Vengono prima i soldi, o prima serve strutturare le risorse che ti permettono di trovarli? Per me prima vengono le risorse. Per me il rugby ha spazi per trovare sponsor, se si fanno certi passi in maniera logica e programmata, possiamo riuscirci. Altrimenti fra cinque anni saremo ancora qui a chiederci perché Glasgow ci dà la paga…. Poi, certo, c’è anche la botta di fortuna, magari ci nascono dieci grandi giocatori, un po’ come è successo con Mennea, o con l’Italvolley. Pensiamo a cosa significa rugby: sostegno e continuità. Tradotto in termini aziendali, sostegno vuol dire processi operativi che funzionano, continuità vuol dire stabilità organizzativa rispetto al piano operativo. Senza questo, le risorse non si trovano. Io di sicuro non so scegliere un mediano di mischia o un tallonatore, ma so che ho bisogno di chi sappia gestire un evento, e sono andato a prenderlo a 1000 Miglia, pur potendolo pagare pochissimo, e di chi riesca a comunicare in una certa maniera. Solo quando questa struttura mi avrà consentito di trovare i soldi potrò fare gli investimenti che servono e allestire una squadra forte».
Con questa idea chiara in mente, dove vanno cercate le risorse finanziare? Nel territorio, nelle aziende di settore, altrove?
«Oggi noi competiamo non all’interno del rugby, ma con gli altri sport. Uno sponsor nuovo lo posso strappare alla pallavolo, al basket, alla pallanuoto, o al calcio, anche se è impresa durissima. Gli altri sono in tv? Bene, ci devo essere anch’io. Gli altri hanno una bella immagine? Devo averla anch’io, e badi il rugby ce l’ha bellissima, ma la sfrutta male. Siamo lo sport del terzo tempo? Benissimo. Ma se viviamo nel paese del cibo, con l’esperienza di Fico a Bologna che sta vivendo un’esplosione di visitatori da tutto il mondo, possiamo
forse restare alle salsicce e alla birra? Io sto cercando di far capire agli sponsor che proprio il terzo tempo è la palestra migliore per mostrare la bontà dei loro prodotti; ancora non ci sono riuscito, però quella è la strada. Io sono molto appassionato di ciclismo, e nella Gran Fondo di Roma la componente ‘terzo tempo’, cioè tutto ciò che sta dopo e attorno alla gara, sta diventando importantissima. Loro lo hanno capito, noi no. Le Zebre sono di Parma: il nostro terzo tempo potrebbe diventare una vetrina del mangiare italiano? Se siamo convinti che quella sia la strada, studiamo un piano, decidiamo in quanti anni realizzarlo, e mettiamoci tutte le nostre risorse. Non si possono rincorrere dieci obiettivi allo stesso tempo. Le grandi aziende di successo dimostrano che bisogna concentrarsi su un solo obiettivo e raggiungerlo».
Trova che nello sport ci sia resistenza, diffidenza verso chi viene da ambienti diversi?
«La parola d’ordine a livello aziendale in tutto il mondo oggi è: contaminazione. L’azienda che produce maccheroni studia le strategie di quella chimica, c’è una osmosi continua di manager. Del resto Marchionne la Fiat non lo ha mica preso in casa propria, non si è chiesta se sapeva di auto o no. Io quando sono arrivato alla 1000 Miglia mica sapevo se l’Alfa Romeo aveva vinto nel 1928 – e continuo a non saperlo -, però ho preso un’azienda che era fallita e oggi guadagna 8 milioni di euro. Un grande giocatore può magari diventare un grande manager, ma anche no».
Tutti gli sport sono alla caccia di strategie, anche ‘social’, per scovare il proprio pubblico di domani: il rugby può battere questa strada?
«I dati che vedo sono interessanti. Il nostro tifoso ad esempio ha cultura e censo medio-alti, in ogni caso bisogna mettersi attorno ad un tavolo e studiare strategie efficaci. La prima cosa che ho fatto quando sono arrivato qui è stato iniziare a costruire quella che in gergo sia chiama ‘brand awareness’, la consapevolezza del marchio. Nel nostro piccolo abbiamo disegnato una nuova maglia, fra l’altro premiata come la più bella di tutti i campionati da una giuria di 50 giornaliste donne di Marie Claire, come esempio di qualcosa che ci identifichi. Secondo me, oggi come oggi per noi è molto più importante questo che battere Bristol. Abbiamo da poco presentato la nostra linea di abbigliamento: borse, borsette, maglioni, parka. Per carità, porterò a casa solo mille euro, però è l’inizio di un percorso che va coltivato e portato avanti».
La struttura attuale di coppe e campionati, anche a livello internazionale, può consentire alle nostre squadre di fare un salto di qualità o favorisce il ripetersi e consolidarsi delle solite gerarchie?
«Se non le sfruttiamo, perdiamo il treno. Vorrei sapere cosa ne pensa il presidente della Benetton, confrontarmi con lui. Io fino a quando sarò qui ci proverò. Certo, se poi vado allo stadio e vedo 2000 persone, delle quali 500 vengono da Bristol, resto deluso. Ma non mi scoraggio e cerco di fare con quello che ho».

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