vai al contenuto principale

Dopo l’ultimo week end sui tavoli del rugby tante spinose questioni

Alla fine, come era inevitabile, Nika Amashukeli, primo arbitro georgiano nel Sei Nazioni, è finito suo malgrado sotto i riflettori. Ma la colpa, più che sua, è di uno sport che non riesce a trovare un equilibrio nel mettersi al passo con i tempi.
Partiamo da Dublino, dove è andato in scena un pasticcio, per alcuni addirittura una farsa.
Ma prima occorre fare un passo indietro.
La salute degli atleti
Da anni ormai World Rugby ha messo la salute degli atleti al centro delle proprie politiche e di una strategia globale. Pesano in questa ottica le testimonianze sempre più frequenti di giocatori di alto livello che lamentano a fine carriera problemi neurologici che arrivano fino alla demenza precoce. La causa di questi disturbi sarebbe stata identificata nei colpi che gli atleti subiscono al capo nel corso della carriera. Un dramma che avvicina il rugby alla boxe e al football americano. Due quindi gli interventi fondamentali: il primo è quello relativo ai protocolli HIA che cercano di individuare immediatamente un trauma cranico evitando che un giocatore rimanga in campo “suonato”, una condizione che arrecherebbe, se non affrontata in tempi rapidi, indiscutibili danni alla sua salute.
Il secondo intervento ha messo nel mirino i placcaggi alti, punendo severamente ogni contatto di un placcatore con la testa dell’avversario.
E qui cominciano altri problemi. Perché il rugby, piaccia o no, resta uno sport di contatti, anche molto duri. È impossibile giocare a rugby pensando di non subire colpi e di non correre rischio alcuno, nemmeno se si rispettano le regole alla perfezione. Varie inchieste hanno messo in evidenza oltretutto che spesso è il placcatore a subire i danni maggiori alla testa: una ginocchiata, una scarpata, una botta fortuita contro il corpo di un uomo di oltre cento chili lanciato in corsa per sfondare. Non esiste un rugby a impatto zero. I placcaggi alti, gli “spear tackle”, gli interventi sui giocatori in aria vanno puniti severamente. Ma ci sono diversi gradi di pericolosità e di punizione.
Irlanda-Italia
E qui arriviamo a Dublino: Brendan Fanning, collega irlandese e amico di vecchia data di Allrugby, ha detto che “l’incidente” che è costato il rosso a Faiva una volta sarebbe stato archiviato senza la minima menzione. È vero. Ma oggi l’attenzione a questo tipo di contatti è estrema. E non si può chiedere a un arbitro esordiente di assumersi la responsabilità dell’interpretazione. Il contatto con il volto dell’avversario impone il rosso.
E qui torniamo a quanto dicevamo prima: nei suoi primi cento anni, nel rugby internazionale ci sono stato due espulsi, entrambi neozelandesi. Nel successivo mezzo secolo, il numero è diventato talmente alto che non si riesce più a tenerne il conto: solo nell’ultimo Sei Nazioni (2021) i giocatori costretti a lasciare anzitempo il campo in modo definitivo sono stati 5.
Ripulire il rugby dagli eccessi di una volta è giusto, ma attenzione a non pretendere di trasformare il gioco in quello che non può essere. Il rugby come il pugilato è uno sport di combattimento. Nell’alto livello uomini dai fisici fuori scala si battono per conquistare spazio a suon di cariche feroci e muscolari. Se questo non è più ritenuto consono con i tempi e le sue esigenze discutiamone. Ma ripulirlo da ogni pericolo è un’impresa vana.
La mischia no-contest
Poi subentra la questione mischia. Ritenuta, a ragione, una fase di gioco che richiede esperienza e caratteristiche particolari, almeno in prima linea. Da qui la necessità di indicare nella lista gara i giocatori specialisti del ruolo. In loro assenza la mischia deve essere giocata no-contest ovvero senza spinta. Per evitare però furbizie, che il rugby – sport cavalleresco per antonomasia – in origine non prevedeva assolutamente, se una squadra è costretta per l’infortunio dei suoi piloni, o dei tallonatori, a chiedere la mischia no-contest deve togliere un giocatore. Ed è il motivo per cui a Dublino gli Azzurri sono rimasti in 13. E’ un po’ come se nel calcio il regolamento imponesse che la squadra che rimane senza portieri, accettasse di giocare in due in meno, in cambio gli avversari possono tirare solo da fuori area. Diventerebbe una farsa. Insomma il rugby si dibatte tra quello che era in origine, uno sport anche brutale, giocato con violenza ma molto fair play, e la necessità di rendersi attuale, in sintonia con i sentimenti di una società che almeno esteriormente vorrebbe presentarsi inclusiva, attenta ai dettagli della salute, solidale.
L’audience globale
Poi c’è l’ultimo punto. Quando il rugby era disciplina per chi la praticava, le partite si accavallavano, i club giocavano in contemporanea con le nazionali. Fino al 1987 in Inghilterra non c’era nemmeno un campionato nazionale. Ma oggi che senso ha disputare Benetton-Sharks, in mezzo al Sei Nazioni, con la franchigia italiana priva di ben 20 “internazionali”?
Se l’Inter dovesse affrontare il Barcellona o il Real Madrid mentre mezza squadra è impegnata con la maglia azzurra, ci sarebbero proteste dei tifosi e della televisione, e in ultima istanza probabilmente anche inchieste parlamentari. Benetton-Sharks, con i sudafricani imbottiti di Springboks, avrebbe potuto essere uno degli eventi dell’anno in Italia. E invece è finita sovrapposta a Scozia-Francia e senza tantissimi titolari nella formazione di Bortolami.
Quando c’è la Champions di calcio, in concomitanza non si può giocare nemmeno scapoli-ammogliati.
Il rugby nel nostro paese è un corpo debole, non si può esporlo ai quattro venti, smembrandone l’audience risicata in tre o quattro competizioni. Ha bisogno che tutte le forze siano concentrate nella stessa direzione, anche quelle mediatiche. La sera di Italia -Francia U20, prima giornata del Sei Nazioni, in contemporanea alla partita degli Azzurri, trasmessa su Sky, andava in onda sulla Rai Valorugby-Petrarca. La settimana successiva, il match vittorioso degli U20 al Monigo si è giocato in concomitanza con Calvisano-Valorugby. Di Treviso -Sharks si è detto. Calvisano -Colorno si è sovrapposta per almeno un quarto d’ora a Irlanda-Italia. Neanche fossimo un paese dove il rugby, sulle tribune e in televisione, fa comunque sempre il pieno.
È ora che la pallovale esca dalla sua dimensione ottocentesca, snob e autoreferenziale. E accetti di allargare il suo perimetro. Ma per farlo non si può snaturare. Deve umilmente accettare la propria identità, i propri limiti, abbandonare regole complicate e bizantine, misurarsi con la concorrenza delle altre discipline e con gli spazi del calendario. I suoi primi 25 anni da sport professionistico sono stati affetti da bulimia, crisi di personalità, schizofrenia, volontà di essere sport dalle caratteristiche estreme ma per tutti, di tutte le misure. Così mette a repentagli il suo futuro. (Gianluca Barca)

Nelle foto, di John Dickson/Fotosportit, un esempio di placcaggio alto e pericoloso, e di placcaggio corretto. Il primo è di Hame Faiva, poi cacciato per un gesto simile, il secondo di Monty Ioane.

Torna su