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Nel giorno di Zebre – Treviso, derby che ha chiuso un torneo difficile per entrambe, due temi importanti tengono banco a livello internazionale. Il più immediato è quello della partecipazione alla Champions Cup della prossima stagione: il dodici maggio, il board dell’EPCR dovrebbe approvare all’unanimità (ma il condizionale è sempre d’obbligo in politica) i nuovi criteri di qualificazione per le coppe europee, ovvero la fine delle “quote nazionali” nel PRO12. Alla Champions accederanno le prime sette della classifica senza garanzie di salvaguardia né per questo né per quel paese. Cambia poco, se non per l’Italia: Cardiff (settima) conquista un posto sicuro nel torneo più importante della prossima stagione (è quello che i gallesi volevano), Connacht ed Edimburgo si giocano l’ipotetico accesso nei play off con le settime classificate di Premiership e Top14, mentre le due italiane e i Dragons vanno in Challenge Cup.

Dal punto di vista sportivo è una decisione ineccepibile e per Treviso e Zebre, tutto sommato, significa qualche brutta figura in meno. Fin qui tutto bene, quindi. In cambio la Fir avrebbe chiesto che alla Qualifying Cup, la competizione che mette in palio due posti nella Challenge Cup, invece che con i primi quattro club del campionato, l’Italia possa partecipare con una selezione di giocatori “emergenti” scelti fra le squadre dell’Eccellenza. Se approvata, potrebbe essere un’ottima opportunità per dare spazio e far crescere i giocatori che escono dalle Accademie.

C’è un altro fronte, però, in cui le spine sono decisamente più appuntite.

Alla fine del Sei Nazioni il PRO12, ha indirizzato alla Fir una lettera di forte critica sui modi e i risultati della nostra partecipazione all’ex torneo celtico. Gallesi, scozzesi e irlandesi (un po’ meno) soffrono la concorrenza della Premiership e del Top14 e gli amministratori del torneo, ormai uomini di businnes più che di rugby, sono stati più volte invitati a proporre soluzioni in grado di riequilibrare la situazione che vede ormai francesi e inglesi dominatori in Europa (da cinque anni in finale di Champions arrivano solo loro). Sotto la pressione degli eventi, la soluzione è stata trovata oltreoceano: ammettere al Pro12 una, o due, franchigie americane. Gli Stati Uniti si sa sono l’Eldorado dello sport professionistico mondiale. Il rugby fatica ad attecchirvi, ma i soldi per agganciare un paio di squadre all’Europa ci sono.

Il primo luglio l’Italia dovrebbe diventare partner del PRO12 a tutti livelli e dividere con le celtiche oneri e guadagni del torneo. Ma gallesi e scozzesi non ci vogliono. O meglio non vedono perché si debba dividere con noi una torta alla quale in sette anni abbiamo contribuito poco o niente. Non con sponsor di peso, non con il pubblico, non con le televisioni (inutile fare l’elenco dei fiaschi di questi anni, da Dahlia in poi), non con i risultati.  Se vogliamo restare dobbiamo continuare a pagare il vecchio biglietto (tre milioni a stagione, più o meno) e portare una squadra a Milano o Roma. Per noi insomma un posto solo, non di più. E a pagamento.

L’Italia, ovviamente, ha risposto duramente all’ultimatum e la faccenda ha assunto immediatamente toni legali: sì, no, potete, non potete. Non un bel modo per sviluppare una partnership paritaria. Nel frattempo però la trattativa con gli Usa e il Canada è andata avanti e voci ben informate dicono che l’ingresso nel PRO12 di una franchigia nordamericana (Houston?) dalla stagione 2018/2019 è comunque certa.

Sul tavolo dunque al momento, ci sarebbero tre possibilità: l’Italia accetta di restare nel Pro12 con una sola formazione, l’altra viene sostituita da una formazione americana.

Seconda possibilità: l’Italia rifiuta tout court e nel PRO12 entrano, al posto di Zebre e Benetton, Houston e Toronto. Si procede per vie legali, chissà come finirà.

Ultima ipotesi: l’Italia riesce a convincere i propri partner della bontà del suo futuro, Zebre e Treviso restano, e il PRO12, sempre dal 2018/2019, si allarga a 14 squadre, divise in due gironi, una nordamericana per gruppo, il che significherebbe una trasferta transoceanica all’anno per ciascuno dei club europei. Non un gran problema visto che nel Super Rugby le distanze sono anche maggiori. Di questo progetto girano già brochure e descrizioni capillari.

Nelle scorse settimane Conor O’Shea ha messo sul tavolo tutta la sua credibilità internazionale ed ha effettuato un lungo road show per spiegare, prima a World Rugby, poi alle Union celtiche, che l’Italia per crescere ha bisogno di sostegno e che negli ultimi mesi, finalmente, il nostro cammino ha preso la direzione giusta, Imbarcando le competenze appropriate per fare le riforme richieste (ecco anche l’incarico alla Atkinson ltd dei giorni scorsi…). O’Shea ha chiesto tempo e pazienza. L’esito delle sue appassionate arringhe non ci è noto, però. Pare che il coach azzurro abbia incontrato molto scettiscismo: insomma all’estero c’è chi pensa che per noi il tempo è ormai scaduto.

Ore c’è da capire: sarebbe compatibile il nostro futuro senza partecipazione al PRO12, oppure con una sola squadra? O’Shea come si comporterebbe in un caso che modifica completamente gli scenari del suo operato?

Lo scenario fin qui descritto apre un terzo capitolo: PRO12 e Sei Nazioni fanno riferimento allo stesso organismo, The Six Nations Ltd. Non si capisce come il Sei Nazioni non veda che l’uscita dell’Italia dal PRO12 finirebbe per ridurre considerevolmente anche la competitività della nostra Nazionale. La mano destra non sa cosa fa la sinistra? Vogliono metterci spalle al muro anche sul piano internazionale?

John Feehan, l’uno forte del Six Nations, solo poche settimane fa aveva ribadito che l’esclusione dell’Italia a favore della Georgia non è un tema all’ordine del giorno, non per ora.

L’ingresso del Nord America nel PRO12 potrebbe suggerire però altri obiettivi, a medio/lungo termine: allargare i confini del rugby internazionale europeo agli Usa (ed eventualmente al Canada) altro che Romania e Georgia, i cui mercati fanno gola a pochi.

Gli All Blacks già da tempo guardano invece al mercato americano come frontiera di potenziale sviluppo. Nel 2014 hanno giocato contro gli Stati Uniti a Chicago e questo scorso autunno sempre a Chicago hanno affrontato l’Irlanda nel famoso match che ha messo fine al loro record. Grandi manovre avanzano. Noi purtroppo siamo ancora lì a misurare l’altezza dei nostri campanili. Gli altri nel frattempo vanno sulla luna.

Foto di Daniele Resini – Fotosportit

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