vai al contenuto principale

Ci sarà pure un motivo se il rugby italiano in questi anni non ha saputo reggere il ritmo degli altri. L’hanno compreso, il motivo, i tanti medici che si sono avvicendati nelle cure?  L’ hanno compresa la causa per cui il mondo ovale ci è sfuggito in avanti?

 

Di Luciano Ravagnani

Se la “rivoluzione” nel rugby italiano appare ormai inevitabile per dare competitività a tutto il movimento, facciamola pure. Ma proprio perché il momento è decisivo appare più che mai necessario conoscere, conoscere bene, conoscere a fondo, tutto quello che stiamo per “rivoluzionare”.  Altrimenti il passo successivo sarà soltanto un gran cumulo di macerie.

Il rugby, almeno nei Paesi in cui conta qualcosa, è lo sport più aderente alla realtà sociale-economica e alla struttura culturale di base. Lo è sempre stato, attualmente lo è quasi per definizione. Al vertice dei valori espressi dal campo ci sono le nazionali di molti Paesi con la qualità e il tenore di vita più alti o quanto meno di cultura rugbistica stratificata da tradizione e risultati.

Prima della “rivoluzione”, ma forse potremmo accontentarci di un cambiamento radicale, perché si sa come vanno a finire le rivoluzioni, è doveroso, quindi, conoscerci e conoscersi a fondo. Conoscere la base sulla quale operare. Lo stato di salute (si fa per dire) del nostro rugby deve essere esaminato in un contesto generale dello sport italiano e del Paese-Italia.  Dalle nostre possibilità economiche allo stile di vita, dai problemi demografici (il Paese è fra i più vecchi del mondo) allo sport nella scuola, dal ruolo del rugby nel contesto sociale agli impianti sportivi, dal coinvolgimento dei mass media alla pressione asfissiante degli sport più popolari, dalla predisposizione per un gioco così esigente alle qualità mentali. Con una frase ricorrente e abusata: capire chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo.  Insomma conoscere a fondo tutta la nostra storia, anche quella politica, oso dire perfino quella religiosa.

Se sai poco di un Paese non lo puoi cambiare, nemmeno sul piano sportivo. Un esempio: nella ricorrenza dell’ottavo anniversario del terremoto de L’Aquila (2009) chi si è chiesto quanti tesori di cultura e tradizione rugbistica sono andati perduti?  In un Paese di poche rigogliose isole e sconfinati deserti ovali, cosa ha significato perdere quasi del tutto il bastione aquilano? E la perdita, nel tempo, di città quali Napoli, Catania, Milano, Torino, Brescia perché è avvenuta?  La provincializzazione, pur in presenza di un proliferare di nuove squadre, che significato ha? L’interesse mediatico è recuperabili o il rugby è soltanto fenomeno da gradi eventi?

Chi intende mettere le mani sul nostro rugby ci pensi bene, si studi a fondo la storia. Ci sarà pure un motivo se il rugby italiano in questi anni non solo non ha saputo reggere il ritmo, ma è addirittura retrocesso per valore di risultati a una posizione mai così modesta. L’hanno compreso, il motivo, i tanti medici che si sono avvicendati nelle cure?  L’ hanno compresa la causa per cui il mondo ovale ci è sfuggito in avanti?

Fra i tecnici della Nazionale, per quanto ho potuto constatare, probabilmente soltanto Roy Bish e Pierre Villepreux (Anni 70-80) hanno cercato di “capire” il nostro Paese e il nostro rugby. Guarda caso entrambi erano docenti di scuola. Tutti gli altri hanno raccolto quel che già c’era e lo hanno reso competitivo (Georges Coste più di Bertrande Fourcade) in relazione alle esigenze dei tempi. Dal Sei Nazioni del 2000 è cominciato lo sfruttamento intensivo delle risorse già limitate, ma con necessità accresciute.  Tutto in fretta, senza il tempo per ragionare. Tecnologie e social media hanno proiettato il rugby in ogni angolo, polverizzando le conoscenze ed evidenziando le differenze.  Internet e YouTube ci hanno rovesciato addosso il mondo di notizie e immagini, lasciandoci come in apnea, con difficoltà di valutazione. Comunque l’Italia sempre ultimo vagone traballante di un convoglio che andava troppo veloce e anche si allungava. Nel 2007 con Berbizier, l’Italia raggiunse il 7mo posto nel ranking mondiale, ora è al 15 esimo con la 16esima vicinissima.

Siccome conosciamo male la nostra storia, tantomeno ci siamo curati di quella altrui, e si è pensato che qualsiasi modello vincente, potesse andare bene ed essere adattato: Nuova Zelanda, Francia, Sudafrica, ancora Francia.  Ora l’Irlanda. Ma cosa sappiamo veramente noi italiani dell’Irlanda?  Mai un attimo per fermarsi e ragionare.

Poco più di 10 anni fa nel nostro campionato di vertice siamo giunti a mettere in campo 100 stranieri sui 150 giocatori delle formazioni iniziali del Top 10 nostrano. Ora si sta pagando il conto. C’è tanto talento, dicono tutti, Conor O’Shea per primo. Ma non ci sono giocatori. In Nazionale c’è un solo giocatore, Sergio Parisse, che può affrontare senza sfigurare, un gioco di sequenze caratteristico del rugby attuale, tecnicamente gestito e amministrato da chi – apparentemente preoccupandosi della crescita altrui – in effetti controlla e costringe nel limbo.

Questo articolo è una sintesi di quello pubblicato nel numero 114 di Allrugby dello sorso mese di maggio

 

la foto è di Daniele Resini – Fotosportit

Torna su