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Anticipiamo un articolo in uscita sul numero di settembre di Allrugby: un contributo al dibattito in corso sulle Accademie e la formazione.
Le accademie innalzano il livello di qualità del nostro movimento o lo deprimono? E devono vivere autonomamente o essere create presso i club? Piccolo dibattito su un tema semplice: campioni si nasce o si diventa?
C’è un tagliando da fare, in occasione del decimo compleanno del sistema-Accademie, o servono cambiamenti ben più radicali? Le opinioni possono divergere, soprattutto se diversi sono alcuni punti di partenza del ragionamento. E allora mettiamoci in ascolto di due pareri in buona parte contrastanti.
Giorgio Sbrocco, docente al Dipartimento dello Sport delle Università di Padova e Ferrara, reduce da 20 anni di lavoro nel settore giovanile del Petrarca, nonché scrittore di storie di rugby e non solo (sta uscendo il suo ultimo libro, “Blain said” – Sergio Penuria indaga dalla parte chusa), parte da una premessa: “Se la analizziamo dal punto di vista scientifico, quella che ci troviamo di fronte è una procedura corretta. È sensato individuare percorsi di formazione specifica per i migliori, che devono giocare e allenarsi con i migliori. Reclutamento e primo affinamento su larga scala sono compiti da assegnare ai club, ma intorno ai 15 anni è sensato individuare un migliaio di ragazzi per i quali alzare la quantità e la qualità del lavoro. Detto questo, a differenza di quanto accade in altri paesi, da noi i giovani non fanno sport a scuola e la rete dei club rugbistici non è poi così diffusa sul territorio: con questi due handicap possiamo immaginare quali siano le difficoltà. Però non siamo sul piano delle decisioni velleitarie, non è come mettere il frac a uno che non ha nemmeno le scarpe. Nel complesso, il sistema delle Accademie a me sembra plausibile. Se, poi, si pensasse che è meglio distribuire le stesse risorse ai club più importanti, non potrei fare altro che sospendere il giudizio, aspettare cinque anni e vedere che cosa si è ottenuto. Ma a bocce ferme non mi iscrivo a questo partito”.
E se si parla del segmento 15-16 anni, prima ancora che di Accademie, bisogna considerare i numerosi centri di formazione istituiti per gli U18.  E’ giusto che un ragazzo di sedici anni debba trasferirsi armi e bagagli per inseguire un sogno che spesso si rivela velleitario? “Una recente circolare federale – spiega Sbrocco – ipotizza che in futuro i ragazzi non debbano andare sempre nella stessa città per allenarsi, ma che siano i tecnici dei centri federali a muoversi, con appuntamenti a rotazione presso le varie società coinvolte”. Un sistema probabilmente più adatto, sia perché così si potrebbe ampliare il numero dei giocatori interessati sia perché porterebbe a un aggiornamento costante degli allenatori dei club. Insomma il sistema non è immutabile, ma suscettibile di modifiche e miglioramenti.
Resta, secondo il tecnico e docente veneto, un altro aspetto però da considerare, quello della qualità intrinseca dei nostri ragazzi: “È vero che la base è cresciuta ma la qualità non è eccellente: i talenti sono pochi”, analizza Sbrocco. Ma allora dieci Accademie zonali non sono troppe? “Potrebbe essere, anche se va tenuto in considerazione che ci sono territori, in particolare al Sud, che non hanno reti di club sufficientemente sviluppate e che lì l’Accademia svolge una funzione ulteriore, fa da avamposto tecnico”.  Dando per assodate queste lacune di partenza sul piano del talento, quali obiettivi è lecito porsi allora per il rugby azzurro giovanile? “In termini di risultati conviene mettersi d’accordo: c’è chi ritiene, ad esempio, che rimanere nel gruppo di eccellenza ai Mondiali U20 non sia sufficiente, per me invece centrare questo obiettivo è già una buona cosa.
Parliamo di Sei Nazioni di categoria? Certo che si vede il divario con le altre squadre: ma i nostri giocano così a causa di insegnamenti non adeguati o perché il livello generale del talento non consente di andare oltre?
Probabilmente la verità sta nel mezzo. In prospettiva il grande vero acquisto da parte della Fir è quello dell’irlandese Stephen Aboud (nominato responsabile della formazione dei giocatori di alto livello giovanile, delle Accademie e della formazione degli allenatori, ndr). È un segnale dell’interesse per una reale progettualità”.
Ma, tornando a un punto cruciale, dove si può arrivare allora se il talento latita? E, ancora prima, è vero che questo è in fondo il grande punto debole del movimento giovanile italiano? Proprio sullo specifico argomento, e pur facendo un distinguo iniziale, dissente Marcello Cuttitta, storico metaman azzurro con il record tuttora imbattuto di 25 marcature, Cuttitta è impegnato da qualche anno nel lavoro sul settore giovanile (in particolare per una società dell’hinterland milanese, i Lyons di Settimo). “E’ vero – dice – che non ci sono molti talenti già sbocciati. Io però vedo in giro un potenziale enorme, che secondo me rischia di perdersi nel sistema centri di formazione-Accademie. A mio avviso devono essere direttamente i club a far crescere questi ragazzi, il che non vuol dire lasciare sole le società: bisognerebbe mandare gli allenatori federali a fare tappa sul territorio, creando una serie di tutor, suddivisi anche nelle diverse categorie di età”.
Spazio alla maturazione individuale (“C’è chi sboccia prima e chi lo fa dopo, ma se si alza il livello di base i risultati arrivano”) e una ricetta in gran parte alternativa a quella proposta finora: “Niente centri di formazione, una/due Accademie con i migliori in assoluto e dai 18 anni in poi la distribuzione dei giocatori promettenti fra le società di Eccellenza, che dovrebbero anche disputare un campionato U20 tra loro. In questo modo i ragazzi giocherebbero come minimo a un buon livello e quelli più pronti potrebbero essere impiegati direttamente nel campionato maggiore”.
Aspettando magari che da qualche parte sbuchi anche da noi un Bauden Barrett. Che è un po’ come dire aspettando Godot. (Giacomo Bagnasco)

Nella foto, Riccardo Raffaele, con Luca Sperandio, Jake Polledri, Lorenzo Masato, nazionali U20 (Daniele Resini/Fotosportit)

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