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Si può fare meglio di così, in attesa che le “riforme” di O’Shea giungano a regime? Analisi delle prime tre giornate del Sei Nazioni 2018.

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Una breve premessa a tutto quanto leggerete di seguito: Conor O’Shea merita il massimo sostegno per il lavoro che sta facendo e il suo piano di rilancio del rugby italiano dalle fondamenta è l’unico possibile e non ha alternative a lungo termine.

Ciò detto, oggi, il problema della Nazionale resta evidente.
Dopo quasi due anni di lavoro, i margini di miglioramento sul campo sono impercettibili. La squadra fatica a darsi un’identità di gioco chiara e il puzzle resta confuso, non ci sono punti fermi, né si intravede una strategia chiara.

A fine novembre, il nostro punto debole era l’attacco: una meta in tre partite. Una statistica che abbiamo parzialmente migliorato segnandone sette nelle prime tre giornate del Sei Nazioni, una in più rispetto all’intero torneo dell’anno scorso. Ma il prezzo è stato brutale: in cambio ne abbiamo subite 18, fanno 6 a partita e abbiamo concesso una media di 13 punizioni a incontro, che al cambio attuale significano almeno 15 punti dalla piazzola per i nostri avversari (se decidono di piazzare, di più se giocano). L’ultimo anno di Brunel la percentuale media di calci a nostro sfavore fu di 11,4 a partita, lo scorso novembre era stata di 9,7.

Le mete subite in autunno erano state 10 (media 3, 3 per match), nell’intero Sei Nazioni 2016 subimmo 11 mete nelle prime tre partite (media 3,6) e 18 nelle restanti due. Il giudizio è sospeso, ma per adesso c’è poco da sperare.

 

All’inizio del torneo di quest’anno l’idea dello staff azzurro era difendere come il Treviso e attaccare come le Zebre: il compromesso è stato la scelta di Allan come mediano di apertura, un giocatore che doveva dare alla linea arretrata della franchigia di Parma un po’ più di ordine, rinunciando a Canna.
L’esisto è sconfortante: la squadra subisce come le Zebre, ma non ha l’estro in attacco della formazione di Bradley. Gli Azzurri sono la formazione che ha battuto meno difensori nel torneo, 40 (un limite antico), un quarto dei quali grazie a Minozzi (9), l’unico in grado di mostrare una certa intraprendenza palla in mano.

Siamo la squadra che calcia meno, circa 17 volte a partita (a novembre 19), ma siamo anche quella che fa meno metri palla in mano e meno passaggi.  Il gioco al piede è modesto, nonostante si sia scelto Allan al posto di Canna e raramente sui palloni alti arriviamo prima degli avversari.

In compenso l’Italia è la squadra che è stata costretta a fare più placcaggi (quasi 180 a partita, nel 2016 la media fu di 130 per match), è inevitabile, di conseguenza, che abbia nel placcaggio la percentuale di successo peggiore (84%). A novembre era stata dell’87%, nel Sei Nazioni 2016 dell’88% nonostante due partite finali (Irlanda e Galles) decisamente ingloriose.

La rimessa laterale funziona a intermittenza, e le touche che abbiamo perso le abbiamo perse sempre in momenti topici del match: a inizio partita a Dublino (poi meta di Henshaw) nel finale del primo tempo, sempre contro l’Irlanda, a 5 metri dalla linea di meta avversaria, e poi a Marsiglia (4 in totale), quando abbiamo calciato un penalty in touche, invece di andare per i pali etc. Rispetto all’autunno concediamo qualche turnover in meno (13 contro 14), ma nel 2016 erano meno di 12.

L’impressione è che non abbiamo scelto in via definitiva come vogliamo giocare, se per rallentare il ritmo degli avversari e difendere all’arma bianca, se per attaccare, o la va la spacca, off load e palla in mano, come fa adesso il Galles, oppure affidandoci ai piedi di Allan, visto che abbiamo rinunciato a Canna.

L’Irlanda fa della conservazione del possesso il suo marchio di fabbrica, avanza lentamente alla fine gli avversari sbagliano. E se non sbagliano c’è sempre l’opzione drop con Sexton…

Siamo la squadra che impostato fin qui meno ruck di tutte le altre: la metà rispetto all’Irlanda, ma anche una decina in meno a partita rispetto al Galles che, per contro, gioca tutti i palloni al largo.

Facciamo meno passaggi, verosimilmente perché riusciamo meno a conservare un possesso sicuro.

In molte di queste statistiche contano ovviamente gli errori individuali: un pallone perso malamente, un errore di posizione, un’esecuzione fatta male. Sexton, è ovvio, noi non ce l’abbiamo. Non è solo colpa della strategia. Ma la bravura di un allenatore sta anche ne trarre il meglio da ciò che ha.
Quando Conor O’Shea è arrivato, un anno è mezzo fa, disse che gli artefici e gli strumenti del suo cambiamento sarebbero stati i giocatori, ambasciatori che avrebbero portato il nuovo credo in tutto il movimento.  E fra di essi infatti, oggi, non c’è nessuno che non sia convinto di essere sulla strada giusta. Ma qual è a strada?

Il ct enfatizza lo spirito del gruppo e si dichiara sempre orgoglioso di quanto hanno fatto i ragazzi.  È una specie di piccola task force (ricordate il film “the untouchables” …), ma forse in qualche caso servirebbe un’analisi più oggettiva e severa.

Insomma, bisogna lavorare molto e la luce in fiondo al tunnel potrebbe anche essere un abbaglio, una lucciola, un’illusione.

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