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Qual è il nostro ruolo nel rugby attuale? Quali le strade da percorrere, quali i limiti strutturali che dobbiamo affrontare?
di Luciano Ravagnani

Come sta il rugby italiano alla fine dell’estate e alla vigilia della stagione agonistica? Discretamente male, grazie.
Ricordo pochissime estati di pausa serena, riflessioni e progetti chiari. Questa non è una delle “pochissime”. Dall’ A (attività, accademie, amministrazione…) alla Z (zero prospettive internazionali, Zebre in crisi profonda…) c’è di tutto. Ricorsi al Tar per il caso Reggio-San Donà , trasferimenti all’estero negati, la telenovela Favaro, situazioni economiche disastrose, club che contestano l’idea partecipare con delle selezioni all’attività europea (la Continental Shield, ndr), L’Aquila (5 scudetti, una storia) che rischia di sparire; la Fir che cambiando i campionati (niente retrocessioni per un anno) perde l’occasione di allargare a sei se non a otto squadre i play off, “autorizzando” di fatto partite che finiranno nel ridicolo, il Pro12 che diventa Pro 14 con due squadre sudafricane e mette in difficoltà le nostre due franchigie, nessuna prospettiva di un campionato onorato da una televisione purchessia.. Insomma un quadro fosco e un malcontento diffuso. Un po’ lo specchio del paese- Italia.
Anche perché l’estate è tempo di confronti. Che sono quelli che ci propone la TV con telecamere puntate sull’Emisfero Sud, e che sono impietosi. Quanto è lontano per consistenza tecnica e efficacia quel rugby, per giunta enfaticamente commentato al punto da farci sentire molto più che inutili nella nostra disperata ricerca di una quotazione di rispetto? Insomma ancora il classico “chi siamo e qual è il nostro ruolo nell’emisfero ovale?”.
In genere gli appassionati di rugby sono a tal punto innamorati del loro sport che quasi non vedono il mondo sportivo che li circonda. Sono autoreferenziali ed esclusivi. Pochi si avvedono di culture e di politiche sportive e di attività agonistiche che spiegano il dominio nel rugby di certi Paesi, da un secolo sempre gli stessi.
Atletica e cultura.
L’atletica leggera, a esempio, è da sempre la misura della civiltà sportiva di un Paese, perché è la più vicina all’attività di base, quindi alla scuola. Note tristi per l’Italia nel mondo di chi salta, corre, lancia. Parliamo cioè dell’attività propedeutica a tutto.
Ai recenti mondiali di Londra tra i 39 Paesi del medagliere (ci riferiamo esclusivamente alle attività da “stadio”. Marcia e maratona quindi escluse, senza voler sminuire il “bronzo” della Palmisano nella 20 km femminile) Italia non è entrata ed è la seconda volta consecutiva. Ci sono entrati, invece, 12 paesi fra i primi 20 del ranking mondiale del rugby. Otto dei primi dieci. Forse ciò ha un significato? Parliamo cioè dell’attività propedeutica a tutto. Ai recenti mondiali di Londra tra gli oltre quaranta Paesi del medagliere, l’Italia non c’è entrata, ed è la seconda volta consecutiva. Ci sono entrati, invece, 12 paesi fra i primi 20 del ranking mondiale del rugby. Otto dei primi dieci. Forse ciò ha un significato?
Il rugby dipende dall’atletica leggera? Probabilmente sì, ma non strettamente. Nel senso che può non essere il motivo principale della nostra scarsa competitività.
A Londra non hanno conquistato medaglie l’Irlanda, l’Argentina, Figi, Georgia, Tonga, tutte prima dell’Italia nel ranking mondiale del rugby e quindi la riflessione va allargata anche se resta curioso il fatto che dal 2000, anno primo del Sei Nazioni, Italia-rugby e Italia-atletica sono parallelamente affondate e dal 2007 (rugby settimo nel ranking mondiale) è stato un vero e proprio disastro di risultati. L’atletica da stadio ha raccolto in tutto due argenti e un bronzo (altre medaglie, poche, sono arrivata da maratona e marcia). Il percorso del nostro rugby di vertice dopo il picco della gestione Berbizier, è troppo noto per ripercorrerlo. Ecco perché si accredita lo sport di base come incidente sull’espressione atletica e agonistica di uno sport così esigente qual è il rugby. Ma forse ci sono altre strade, che altri percorrono e noi no
Il discorso si allarga. Coinvolge la nostra cultura sportiva, appunto. Coinvolge la scuola (per la quale spesso l’attività agonistica è un fastidio), l’amministrazione pubblica nazionale e locale per l’impiantistica e il sostegno economico, gli enti di promozione, l’intangibile CONI, le Federazioni, gli enti militari, i partiti (mai vista la parola sport in un programma elettorale!), i mezzi di comunicazione, gli stili di vita, i gusti individuali, il retaggio familiare (i cosiddetti figli d’arte).
Il tutto, ovviamente, senza pretendere regole buone per tutti e decisive, dato che la globalizzazione anche dello sport dimostra, nei grandi eventi, che i fenomeni non hanno limiti di nascita, di territorio, di colore di pelle. E che anche nel mondo dei fenomeni ci sono dei cicli naturali comprensibili.
Che rugby per noi?
Appare sempre attuale, tornando al nostro rugby e ai suoi risultati, la proposta di una “Costituente Tecnica” per il rugby italiano, aperta a tutte le componenti tecniche responsabili della Fir, centrale e periferica, per definire, una volta per tutte, considerata la nostra struttura sportiva, sociale e demografica (siamo un paese “vecchio”: 14% inferiore a 15 anni, contro il 25 % di Argentina e il 21% della Nuova Zelanda), il rugby che si vuole e si può fare e come si intende farlo, dopo che la Federazione sembra aver dato tutto quel che poteva dare sul piano delle idee e su quello economico e i risultati non si vedono e ci resta soltanto la speranza che le cose migliorino, ora che i cervelli pensanti si sono arricchiti di intelligenze straniere ineccepibili (almeno all’apparenza). Ma è risaputo che nessuno da noi trova il gusto di misurarsi e non si farà mai nulla di simile. Il nostro rugby sembra omologato e catacombale, non si confrontano le idee. Meglio il libro dei sogni. Scritto da altri.
Ha suscitato scalpore nei giorni dell’atletica mondiale di Londra, un’intervista di “Repubblica” a Liz Nicholl, 65enne gallese, da anni amministratrice delegata di “UK Sport”, un fondo governativo per il sostegno economico dell’attività sportiva, autonomo dal comitato olimpico britannico (il nostro Coni). La Nicholl spiega come da Atlanta 1996 a Rio de Janeiro 2016, la Gran Bretagna (che significa Inghilterra, Scozia, Galles e quasi mezza Irlanda), sia passata da 15 a 67 medaglie olimpiche. La sostanza: “Programmazione, serietà, realismo. No beneficenza. Chi non può vincere non va finanziato, un sostegno non è un matrimonio. Spendiamo soldi pubblici e vogliamo risultati. Non ci interessano le probabili medaglie, ma le possibili. Chi vuole giochi pure a volley, basket o badminton, ma se non si intravvedono medaglie, niente finanziamenti. In Italia cambierei tutto”.
Tutti d’accordo, ma a parte che la struttura di puro realismo britannico non ha molti uguali al mondo, non è poi – almeno negli obbiettivi – una novità in assoluto. L’URSS, la Germania Est, la Romania di Ceausescu, la Cuba di Castro sono arrivate prima. E attualmente in Francia la cura dello sport di vertice è veramente statale.
In Italia l’intangibile Coni riceve soldi e provvede a quasi tutto. E il fondo extra statale, simile a UK Sport britannico, siamo realisti, è quello erogato dagli enti militari. Quanti sono i nostri atleti di vertice, in tutti gli sport, a non indossare idealmente la divisa? Soldi pubblici. Come quelli delle Federazioni, che completano il quadro. Benemerenza sportiva spesso significa posto sicuro. Soprattutto da 10 anni a questa parte lo sport italiano sembra un “postificio”, con scarso ricambio e scarse valutazioni di merito e di risultati. Se va male si cambia di posto, non di mestiere. Il “tengo famiglia” è anche della FIR, ogni anno sempre di più. Quasi nessuno viene valutato sui risultati ottenuti. Liz Nicholl cambierebbe tutto in Italia? E ci credo!
Copiare o inventare?
Ma qui non si vuol fare il processo allo sport italiano o disquisire sui vari sistemi mondiali (a chiudere il discorso basterebbero tre parole: sport nella scuola), ma trovare una soluzione per il nostro rugby che non manca certo di orgoglio e spirito nazionale, non sufficienti comunque per accordarsi con la realtà del “postificio”. Tanto più che in 90 anni non c’è stata nel rugby un’idea tutta nostra, una proposta tecnica, una specificità nel gioco, un’elaborazione strutturale. Abbiamo sempre copiato e spesso copiato male.
Suscita il sorriso, in chi la ricorda, l’idea di Romano Bonifazi, ct azzurro fine Anni Trenta, che auspicava la spinta in mischia senza tallonaggio. Fu quasi deriso. Era, invece, la nascita della “bajadita” argentina, creatura di Francisco Ocampo, i cui effetti – anche deleteri – hanno invaso il mondo ovale e ci costringono ora a trangugiare, a ogni livello, aborti di mischia ordinata.
Sul piano tecnico o tattico non sono molti i paesi al mondo ad aver influito sull’evoluzione del rugby. Fra questi non c’è l’Italia, sicuramente. Tutti conoscono dell’Inghilterra, dove il rugby è nato e scusate se è poco. La Nuova Zelanda è stata la fucina del rugby di movimento (e tanto altro, si sa, tutti vogliono imitarla), il Galles ha teorizzato i trequarti e con Carwyn James (Lions 1971) il gioco diverso per superare un avversario imbattibile nel gioco standard; l’Irlanda ha reso grande la Garryowen, cioè il calcio alto, e il calcio tattico e il famoso “spirito di combattimento” ; il Sudafrica la struttura di squadra e la potenza; la Francia, col miracolo di Lourdes, il gioco dei centri e più tardi, col Beziers, la compattezza del pack nello spazio di un lenzuolo, l’Australia, parente povero fino agli Anni Ottanta, è esplosa con il lavoro delle accademie di specialità a sostegno di un potenziale atletico fra i migliori del mondo; la Scozia ha nel dna il rigore accademico, al punto da dire che “finché ci sarà Scozia ci sarà rugby”. Perfino la Romania ha fatto scuola: la sua preparazione atletica, sugli studi di Teofilovici e Padureanu, è stata referenza mondiale dopo il 1957, quando anche i gallesi, al Festival della Gioventù di Mosca, scoprirono quanto fosse importante allenarsi bene (non a caso il Galles, anni dopo, inventò lo “squad system” contro ogni comportamento tradizionale prima dei test match). Altri movimenti hanno lasciato il segno: la fisicità e l’abilità manuale delle Figi, la potenza di Samoa purtroppo “colonia” della Nuova Zelanda, l’aggressività e le doti naturali di Tonga.
L’Italia? La risposta è nei nostri 90 anni di colonia tecnica, a rotazione, di Francia, Galles, Nuova Zelanda, Sudafrica, Irlanda. Con qualcosa, molto, di Argentina, non fosse altro per i tanti oriundi che hanno caratterizzato il nostro rugby di vertice e di base.
Quindi torniamo al punto. Chi siamo e qual è il nostro ruolo nel rugby attuale (pieno di incongruenze e difetti, ma questo è)? Ognuno tragga un giudizio personale e lanci il proprio “hasthag”. Personalmente propendo per: #guardiamocinegliocchi.

Nella foto, Sergi parisse saluta mestamente il pubblico dopo la sconfitta con l’Irlanda all’Olimpico nello scorso Sei Nazioni (foto Roberto Bregani/Fotosportit).

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