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“Villain”, ruvidi, ignoranti, cafoni: possono essere sinonimi di una caratteristica che abitava nel vecchio rugby e che deve ancora avere pieno diritto di cittadinanza in quello nuovo: se la scorza è dura, l’albero può resistere a ogni sorta di intemperie.

E così, con il 6 Nazioni che incombe e con un naufragio che porta a riva ancora qualche desolante pezzo di relitto, Eddie Jones (al momento non sappiamo se questa sarà la scelta definitiva) ha pensato seriamente ad affidare i gradi di capitano a Dylan Hartley, uno che non sa stare con le mani in tasca, che ha avuto a che fare più di una volta con la giustizia ovale, che ha buttato occasioni e chances, ma che possiede la stoffa, l’animus pugnandi, la personalità che servono nello scontro. Più che un capitano, un sergente maggiore di Anzac: Dylan è nato in Nuova Zelanda.

Nella sua storia l’Inghilterra ha avuto capitani aristocratici come Lord Wakefield o dalle profondissime radici normanne come Philip Ranulph de Glanville, per poi affidarsi in tempi più recenti a un commoner dall’aspetto minaccioso – la creatura immaginata da Mary Shelley ? – che in gioventù ambiva a trovare impiego presso la Royal Mail: Martin Johnson. La sua capacità di presa sulla pattuglia che ebbe a disposizione ha ancora adesso del formidabile, del memorabile, dell’unico: Johnson non era un raffinato oratore, ma da quegli occhi infossati arrivavano segnali giusti e fulmini zigzaganti che si trasformavano in dispacci, in ordini che non potevano esser messi in discussione. Ad un suo cenno, Corry, Back e Hill avrebbero scalato la trincea e si sarebbero lanciati nella terra di nessuno.

Chris Robshaw, il capitano dell’Inghilterra che doveva essere gigantesca ed è diventata lillipuziana, non aveva il sangue blu dei suoi illustri predecessori né il carisma del plebeo Martin. Era, ed è, un buon giocatore, un buon ragazzo che è finito nel più maligno dei gorghi, quello che all’indeciso riserva la scelta sbagliata nel momento sbagliato. Ha dimostrato di non essere ignorante sino in fondo e così di esser finito in un guado che gli è stato fatale.

Nel rugby, l’ignorante vive in una invidiabile condizione: innanzitutto ignora quel che lo attende o, se appena immagina il tritacarne, la centrifuga in cui sta per precipitarsi, decide che non è il caso di preoccuparsi. La sua abilità, la sua capacità di leadership dipende dalla forza di convinzione che saprà trasmettere a chi gli sta attorno e che a quel punto, quando le pistole diventano tuoni (Bob Dylan, opere citate), dovrà seguirlo.

Il nostro sport, che giunge ai 193 anni di vita e che ha appena superato un ventennio di sin troppo tumultuoso sviluppo, è sempre stato ricco di personaggi spesso transitati nella categoria del leggendario, del picaresco, degni di finire nelle pagine di un antico poema eroico dall’autore incerto o nelle narrazioni di maestri del sublime grottesco, dell’allegoria trionfante. Nel loro girovagare, nei loro scontri con imprevedibili avversari, don Quixote non poteva essere un magro seconda linea o Sancho un rotondo tallonatore?

Non fosse nato nell’alto Lazio, ma in Nuova Zelanda, in Sudafrica, in Scozia, Anacleto Altigieri, che se n’è andato da poco e che era stato azzurro per la prima volta in un paese che non c’è più, la Rhodesia, sarebbe stato definito un farmer, come vecchi colleghi che agli antipodi, nel veld o nelle terre alte o basse, allevavano bestiame da carne o da lana. Quel mondo in cui l’ignoranza iniziava dalla scoperta del gioco stesso, delle sue regole primarie, è sempre più estraneo, lontano: oggi non sono più i giocatori che allevano, ma sono allevati. Forza, intuizione, istinto – ferocia, a volte -, finiscono per passare attraverso un condizionamento, da una disciplina.

Ma lo spazio per quel che abita nelle fibre più riposte, nel profondo, non è ancora sparito perché quando si sarà esaurito, decreterà la fine di tutto. L’elogio dell’ignoranza può anche finire qui. I vecchi del mestiere hanno capito tutto.

Giorgio Cimbrico

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