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Test match Nazionale Maggiore, Bucarest, Stadion Arcul de triumf, Romania v Italia

E adesso che i cocci delle nostre ambizioni sono finiti sparsi sul prato dell’Adjarabet Arena di Batumi, adesso che abbiamo perso anche l’illusione di essere i migliori di quelli meno bravi, adesso cosa sarà del rugby italiano, delle sue speranze, delle sue eterne contraddizioni?
Il Sei Nazioni
Cominciamo dalla posizione italiana nel Sei Nazioni, che la sconfitta con la Georgia non rende affatto più precaria di prima. Con l’ingresso del fondo CVC nel suo capitale azionario, la Six Nations Ltd ha gettato una volta per tutte la sua maschera romantica e sentimentale, mettendo in chiaro che prima di tutto viene il denaro. Il rugby non è più quello dei cavalieri senza macchia e senza paura, leali, nobili, rispettosi delle origini e delle tradizioni del gioco. Il rugby è diventato un’industria che ha come primo obiettivo quello di ampliare il proprio patrimonio. E pertanto non è la Georgia la risposta alle sconfitte permanenti dell’Italia. Non credete a chi perora la causa dei Lelos facendo leva sul merito sportivo e il rispetto dei risultati. L’Italia, non solo è partner paritario del torneo, ma pur con tutti i suoi limiti continua ad essere una frontiera economica molto più appetibile rispetto a quella georgiana.
Che apporto darebbe alle casse del Sei Nazioni, l’inclusione di un paese di 3,6 milioni di abitanti che non ha sponsor da offrire alla tavola comune, né network che possano moltiplicare gli introiti dei diritti televisivi?
Se il modo di argomentare non vi piace, pazienza: è lo sport 2.0, bellezze.
È lo sport che ha disputato le ultime Olimpiadi invernali a Pechino e organizzerà i prossimi Mondiali di calcio in Qatar, senza dimenticare che i Mondiali di atletica sono finiti a Eugene, in Oregon, solo perché lì ha sede la Nike che di corse e salti è uno dei grandi padroni internazionali.
Del resto, non è stato il presidente di World Rugby, Bill Beaumont, a dire che l’assegnazione agli Usa (agli Usa, numero 17 del ranking mondiale, dietro a Spagna e Romania…) dei Mondiali di Rugby del 2031 è una potenziale miniera d’oro per il pianeta ovale?
Non saranno quindi le mete di Abzhandadze e Todua, o le serpentine di Niniashvili, a decidere la permanenza nel Sei Nazioni dell’Italia.
Il calendario globale.
Andiamo piuttosto, se ne parla da tempo, verso una ridiscussione complessiva del calendario internazionale, con il Sudafrica, campione del Mondo, punto di equilibrio fra i due emisferi, nord e sud. I sudafricani si sono già accampati in Europa, dominando lo URC, e dell’anno prossimo parteciperanno anche alle coppe europee, mentre gli Springboks continuano a giocare il Rugby Championship con Nuova Zelanda e Australia. Ecco, i campioni del mondo, quelli sì, sono un asset appetito da sponsor, network e organizzatori internazionali: volete paragonare l’appeal di un Inghilterra-Sudafrica, o Francia-Sudafrica, e il loro mercato, a Inghilterra-Italia, o Inghilterra-Georgia? E allora, nel medio periodo, si andrà verso un cartellone capace di mettere in scena sempre più spesso le grandi sfide tra i pesi massimi, con la promessa di redistribuire una parte degli utili anche i partner minori, tutti contenti o quasi. Il Sei Nazioni resterà, certo. Magari con una formula diversa: persino la Coppa Davis del tennis ha dovuto lasciare i pezzi per strada.
Questo sul piano economico, in cui l’Italia è stata tanto deludente quanto su quello tecnico: nei primi vent’anni del Sei Nazioni, un solo sponsor italiano (Cattolica) sulle maglie degli Azzurri, introiti e audience TV nettamente inferiori a quelli degli altri paese rivali. Non dimenticate che l’apertura dell’allora PRO12 alle due franchigie italiane fu sostenuta dall’illusione che con Benetton e Aironi (poi Zebre) sarebbero arrivati i grandi marchi nazionali, Piaggio, Armani, Fiat, Barilla etc. Non è successo, da quel punto di vista siamo rimati a zero.
Infine il lato tecnico.
Nella sua intervista a Allrugby numero 171 Marco Bortolami, head coach Benetton, 112 presenze in Nazionale, 39 delle quali da capitano, parla di una pericolosa assenza nel nostro movimento di una cultura di alta prestazione, il che penalizza il rugby rispetto ad altre discipline (calcio, pallavolo…) e soprattutto nei confronti dei nostri rivali.
Uruguay, a novembre, Portogallo e Georgia, nelle scorse settimane, hanno denunciato una grave carenza di personalità nella Nazionale, incapace di prendere il comando del gioco e mettere alla frusta gli avversari.
Le individualità, anche quelle teoricamente di classe superiore (Paolo Garbisi, titolare nella formazione dei campioni di Francia, Tommy Allan, giocatore degli Harlequins in Inghilterra…) si perdono in un confuso marasma collettivo, il cui totale è spesso inferiore alla somma delle qualità dei singoli.
Torna in mente la famosa frase con cui Pierre Villepreux sintetizzò il tour in Nuova Zelanda del 1980: “voi italiani giocate 15 partite diverse, ognuno si perde dentro la sua”.
Paghiamo la nostra eterna marginalità: pochi tifosi, poca stampa (nessun giornalista italiano a Batumi), per crescere bisogna andare oltre i propri limiti e per andare oltre i propri limiti ci vuole anche un movimento che spinga tutto in quella direzione.
Le franchigie galleggiano in un limbo che non pretende sforzi superiori, il Top10 è oggetto di culto per pochi e la Nazionale vive di rari sprazzi, alimentati da un entusiasmo che si spegne intorno ai vent’anni (vedi i successi della U20) o giù di lì.
Ci manca una cultura condivisa del gioco: a Batumi è bastata una Georgia che sembrava la Romania degli anni Settanta per mettere in crisi i nostri meccanismi e le nostre velleità.
Si parla anche di leadership e personalità, doti che andrebbero costruite con metodo, non assegnate per principio sulla base di intuizioni improvvisate e senza un supporto concreto di fatti e qualità.
Privo di un confronto costante con opinioni diverse e con una critica basata sulla sostanza, non su invidie, ripicche e campanili, il rugby italiano si avvita in un perenne giorno della marmotta.
Una partita non fa primavera e una sconfitta non ci ricaccia necessariamente all’inferno, sia pure contro la Georgia che da anni ci aspettava. La vittoria col Galles era stato il sintomo di un possibile risveglio da un lungo stato comatoso. La sconfitta di Batumi dice che non siamo mai del tutto guariti. La “cultura di alta performance” di cui parla Bortolami, che il Benetton sta costruendo con fatica e che la Nazionale U20 da qualche stagione è riuscita a introiettare nel proprio dna (per i giovani evidentemente è più facile misurarsi per due e tre anni consecutivi con l’istinto e le ambizioni dell’età, prima di ritornare nel letargo della maturità) richiede una pratica costante, giorno per giorno, stagione dopo stagione, nei club, nelle selezioni, in ogni competizione, in ogni categoria. Un lungo cammino. Per affrancarsi da un’amara realtà.

(Gianluca Barca)

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