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L’articolo di Silivia Salis, vice presidente del CONI, pubblicato lo scorso mese di marzo nel numero 199 di Allrugby

Il movimento sportivo in Italia vive una vera e propria età dell’oro, dopo il complicato periodo pandemico. I motivi di questa rinascita sono molteplici: il buon lavoro delle Federazioni sportive, delle società sul territorio e, ovviamente, del Coni, i grandi risultati ottenuti nelle competizioni internazionali ed alcuni exploit di campioni che entreranno nell’Olimpo di sempre (pensate soltanto a cosa sta accadendo nel tennis con Sinner e la squadra di Davis o nello sci con le regine Brignone e Goggia). Secondo l’ultimo dossier disponibile i tesserati per le Federazioni Sportive Nazionali o iscritte ad un Ente di Promozione Sportiva sono oltre 14 milioni tra atleti e dirigenti, ed è un dato precedente all’ondata benefica dei successi succitati. Di fatto il partito più grande d’Italia. Ma, c’è un ma che va sottolineato. Ogni dieci atleti praticanti, sette sono uomini e tre sono donne. E il dato diventa ancora più rilevante se esaminiamo gli under 18 (che pesano circa la metà del totale dei praticanti): negli uomini i giovani sono circa il 55%, nelle donne circa il 66%. Il che tradotto in lettere significa che le donne in Italia fanno sport da bambine e poi, molto spesso, smettono. E mentre le donne italiane in età da lavoro fanno poca attività sportiva, nonostante l’aumento in termini percentuali sia costante, seppur lento, lo sport al femminile sta esplodendo anche in territori finora considerati “maschili”, come il calcio, il rugby o la boxe. Il rugby in particolare sta vivendo un momento importante di cambiamento, il primo gennaio è arrivato il nuovo allenatore delle Azzurre, Fabio Roselli, e il 2025 si presenta ricco di impegni.  Eh sì, proprio il rugby, uno degli sport simbolo del machismo, sta godendo di un momento d’oro delle nostre atlete, impegnate come i colleghi uomini nel Sei Nazioni piuttosto che nelle fasi finali di tutte le competizioni. E se c’è ancora in giro (e purtroppo c’è) chi afferma che placcare o dare una spallata non sia femminile, lasciamolo solo e andiamo a goderci tutti un terzo tempo, forse la più bella invenzione dell’intero mondo dello sport. Per chi non sapesse di cosa si tratta (forse il termine inglese è più chiaro “after-match party”) è una festa a cui partecipano le squadre, spesso le loro famiglie e a volte anche i tifosi. Pensate che guerriglia urbana avviene quando vanno in campo altri sport e capirete che lezione di civiltà ci dà il rugby, dopo ogni partita.

Silvia Salis durante gli Europei di Barcellona del 2011. (Foto Fidal)

Per contestualizzare però meglio il quadro generale dello sport femminile va tenuto conto che molte discipline sono state allargate alle donne solo recentemente, un esempio per tutti il “mio” lancio del martello reso sport olimpico soltanto a Sidney 2000 per la categoria femminile. E nonostante questo mandiamo più o meno lo stesso numero di donne e di uomini alle Olimpiadi e otteniamo lo stesso numero di medaglie divise per genere. Gli stereotipi di genere che impongono lo sport fin da bambini come “attività da maschi” sono duri a morire, e spesso sono rafforzati dalle stesse famiglie e dagli insegnanti. Ho buona memoria e ricordo bene le decine di volte che qualcuno mi ha detto che il lancio del martello era uno sport troppo “muscolare” per una ragazza e che il mio fisico ne avrebbe risentito. Non è qui la sede per dibattere che lo sport femminile porta con sé diverse questioni irrisolte come la gestione della maternità (ho collaborato qualche anno fa alla costituzione di un fondo maternità ma ancora non basta) e gli stipendi talmente differenti da quelli dello sport maschile da rendere complicato per una donna dedicare allo sport tutto il tempo necessario (sì, lo so, il cachet lo fa il mercato ma un maggior equilibrio sarebbe auspicabile). È evidente che c’è ancora tanta strada da fare su questo.

Se poi allarghiamo il quadro generale alla dirigenza sportiva il panorama è sconsolante. La mancanza di figure femminili in posizioni di potere è evidente qui molto più che in altri ambienti. Una donna può essere competente di sport? Certo che sì, e aggiungo anche che non è necessario che sia stata una atleta. Spesso (ma non sempre) in Italia una posizione di vertice è qualcosa di simile ad un premio alla carriera e alle medaglie, senza tenere in alcuna considerazione che nel 2025 dobbiamo cercare sempre più di creare dei manager pronti a competere nel mercato globale dell’intrattenimento (perché lo sport di prima fascia sta diventando sempre di più uno spettacolo). Tutti i dirigenti attuali, naturalmente me compresa, hanno oggi una grande responsabilità: traghettare lo sport in una nuova fase, fatta non solo di medaglie ma di sport di base, l’unico in grado di creare benefici sociali importanti sull’educazione dei ragazzi e sulla sanità. È il momento di progettare, tutelare, legiferare, innovare e rinnovare (gli impianti scolastici in testa a tutti). E le donne spero che in questo rinnovamento diano una spallata e abbiano (finalmente) un ruolo da protagoniste.

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