
Torna in Italia Stephen Aboud con l’incarico di High Performance Manager. Il tecnico irlandese rientra in Italia dopo due anni di esperienza con Rugby Canada.
Chi è Stephen Aboud? Riproponiamo qui l’intervista di Stefano Semeraro pubblicata sul numero 169 di Allrugby maggio del 2022 poco prima del suo (ormai temporaneo) addio all’Italia.
La parabola italiana di Stephen Aboud si avvia ormai al termine. A giugno scadrà il contratto fra la Fir e il tecnico irlandese – qualcuno lo definisce ‘guru’, ma la parola a lui sicuramente non piace… -, arrivato da noi insieme a Conor O’Shea per rifondare la preparazione degli atleti di livello e formare gli allenatori del futuro. Il suo lavoro ha sicuramente portato frutti importanti che stiamo iniziando ad apprezzare solo ora, paradossalmente quando tutta la struttura delle accademie, che faceva parte integrante del progetto di Aboud, viene rimessa in discussione. Non è mai stato semplicissimo, anche per la riservatezza del personaggio, poco incline alla comunicazione, amante delle metafore, capire nei dettagli in cosa sia consistito il suo lavoro, quali linee guida abbia seguito. In giro per partite e accademie non lo si è visto spesso, e quando è capitato, sempre con una posizione defilata: se per rispetto o voglia di autosufficienza non si sa. Un regista più che un attore protagonista. Del quale non va misurata la competenza con il metro del presenzialismo, dice qualcuno.
Poi, nel conto ci sono anche le valutazioni che non sempre (eufemismo) sono state condivise da altri allenatori italiani.
Per provare a dipanare un po’ la «matassa» Aboud, abbiamo provato quindi a intervistarlo partendo proprio dai concetti che ha voluto alla base della sua esperienza.

Stephen, quali erano le linee guida del suo progetto quando è arrivato in Italia sei anni fa insieme con Conor O’Shea?
«Bella domanda. Quando siamo partiti c’erano alcuni princìpi fondamentali che volevamo condividere il più in fretta possibile. Il primo meeting, appena arrivato, l’ho avuto con lo staff tecnico. Uno dei cardini era che se vuoi costruire dei giocatori di alto livello, il piano deve essere a lungo termine. Non sto parlando di uno o due anni, ma di un tempo più lungo. L’altro principio è che dovevamo essere allineati, seguire la stessa bussola. Se dobbiamo andare a Nord, insomma, lo possiamo fare in tante maniere, e a diverse velocità, perché siamo tutti diversi; ma non possiamo farlo andando a Sud. Il codice che abbiamo studiato prevedeva di rispettare la natura e le regole del gioco, nell’intento di costruire i giocatori di cui l’Italia ha bisogno per essere davvero ad alto livello. Non si tratta di produrre un solo tipo di giocatori, tutti con le stesse caratteristiche; piuttosto di creare rugbisti che sappiano adattarsi a diverse esigenze, a diversi allenatori, e a diversi stili di gioco. Queste erano le linee guida che abbiamo condiviso con tutti, e sulle quali tutti hanno avuto voce in capitolo, in collaborazione quindi con i coach e i centri di formazione permanente»
È soddisfatto di come queste linee guida sono state applicate?
«I risultati di questo progetto credo che parlino da soli. Da fuori non si vede la qualità delle sessioni di allenamento, le ore che sono state spese per formare gli allenatori. Non si vedono i passi avanti che sono stati fatti nella qualità del lavoro, mentre è proprio su questo che ci siamo concentrati. Sono contento dei risultati che abbiamo raggiunto con gli U18 e gli U20, riuscendo a far approdare qualcuno di loro alla nazionale maggiore. Ora abbiamo 43 giocatori prodotti da questo sistema che giocano nelle franchigie, 24 che sono nel giro della Nazionale maggiore, e 20 sono stati convocati. Quando sono arrivato, fra gli Azzurri non c’era nessuno sotto i 23 anni, ora c’è materiale su cui lavorare. Più di quanto mi aspettassi. I giornalisti, i giocatori, gli appassionati però non vedono tutti questi miglioramenti, ma solo le cose che non funzionano. E questo lo avevamo messo in conto. Però il lavoro che si sta facendo, noi dall’interno lo vediamo, e possiamo anticipare ciò che accadrà. La seconda parte del programma avrebbe dovuto interessare il periodo dal 2023 al 2027, ormai non mi riguarda più, e del resto quando cambiano amministratori e politici le decisioni spettano a loro. Ma io sono molto soddisfatto di ciò che è stato fatto».

(Foto Roberto Bregani/Fotosportit via Federugby)
Lavorare con noi italiani è stato faticoso? Qual è stato il concetto più difficile da far accettare?
«Non si tratta di lavorare con gli italiani o con gli irlandesi, il punto è il controllo. Se sei il cuoco e hai il controllo della cucina, puoi creare i piatti che vuoi. Se non hai il controllo degli ingredienti, non puoi garantire la qualità. Senza Franco Ascione, per me uno dei tecnici migliori del mondo, senza il suo sostegno e la sua capacità di influenzare la Federazione, non avrei potuto fare ciò che ho fatto. Se vuoi ottenere risultati nel rugby di alto livello devi lavorare con giocatori di qualità, coach di qualità, e in un ambiente di qualità, il più spesso possibile. Se un’altra nazione ha il tuo stesso livello di qualità in queste componenti, ma può lavorarci più a lungo, otterrà migliori risultati. Devi avere tutti i passaggi sotto il tuo controllo. Ogni realtà, ogni paese ha una struttura diversa che riflette la propria tradizione, ma noi non possiamo contare sull’aiuto della scuola, come invece possono fare in Inghilterra, in Galles o in Scozia. Quel lavoro di base spetta a noi farlo, controllandone ogni step. Dallo scorso marzo abbiamo finalizzato il controllo sull’ultima parte della catena, sia io sia Franco Smith, per quello che ci competeva».
O’ Shea sosteneva di vedere la ’luce in fondo al tunnel’, ma ancora oggi si stenta a vedere la fine del percorso.
«Quando lavori sul rugby di alto livello non c’è mai una destinazione finale, solo una serie di miglioramenti. E vale anche per i tuoi avversari. Non arrivi mai perché non pensi mai al presente, ma al futuro. Quello che vediamo oggi è il frutto del lavoro degli ultimi anni, e ciò che accadrà nei prossimi 5 anni sarà la conseguenza di quello che abbiamo già iniziato a fare. Penso sia evidente che la Nazionale ora vince di più, è in grado di competere maggiormente, e personalmente non posso che sperare che questo percorso continui. Conosco la passione, l’impegno, la qualità dei giocatori. La continuità è il frutto del lavoro, non avviene per caso, bnsì grazie a un impegno costante, determinato. Ma non so cosa accadrà, perché non faccio più parte del progetto. Quindi uso il verbo ’sperare’».
La struttura del rugby internazionale, con i suoi campionati chiusi, non rischia solo di perpetuare un sistema di caste, di riproporre gerarchie inamovibili da cent’anni?
«Onestamente, non mi interessa. Io mi occupo di un campo molto ristretto, quello della performance. Se cambia la struttura, so che dovrò adattare il tipo di preparazione alle nuove esigenze, ma non mi concentro su cose di cui non ho controllo. Detto questo, è sicuramente un periodo molto strano. Sicuramente non stiamo vivendo il Rinascimento del rugby, piuttosto un Medioevo. Non si vedono tante partite belle e interessanti. Spero che il Rinascimento sia davanti a noi, ma non vedo grandi esempi di creatività e quando capitano, come nel caso della Francia o della Nuova Zelanda, dobbiamo esserne felici. Tutto però ha una spiegazione. Se ora siamo in un’era oscura è frutto delle decisioni che hanno preso le federazioni. Mancano la creatività, la libertà di espressione, l’innovazione. Spero che il Rinascimento prima o poi arrivi, ma non lo prenderei per garantito».
Il suo lavoro è apprezzato da una buona parte dell’ambiente, ma ci sono anche molti che faticano a capirne la portata… «Non mi interessa ciò che dicono le persone al di fuori del mio ambiente. Un complimento vale un insulto: dipende tutto se hai rispetto di chi lo pronuncia. Mi interessa cosa dicono i miei colleghi, quelli che lavorano con me, e in base ai loro feed back cerco di migliorarmi e adattarmi. Non voglio sembrare arrogante, ma non mi curo delle opinioni di tutti».
Spesso però non è facile capire in che cosa si è concretizzato il suo ruolo. Una mancanza di comunicazione?
«Io mi occupo solo della performance. Io so che per creare giocatori di livello devi formare tecnici di valore, e su questo mi concentro».

Qual è il livello dei tecnici italiani oggi? Secondo lei i tempi sono maturi per avere un ct italiano sulla panchina della nazionale maggiore?
«La qualità della didattica per il rugby italiano è migliorata. Ma anche la creazione di tecnici richiede tempo. Avendo avuto l’occasione di lavorare a fianco di gente come con Troncon, Bortolami, Roselli, Di Giandomenico so che sono super coach, che franchigie e team stranieri trarrebbero beneficio da una collaborazione con loro. Anch’io ho imparato tanto da loro in questi sei anni. Ma una cosa è la competenza, un’altra è vedersi offrire un lavoro. Credo che il detto ‘nemo propheta in patria’ si addica alla situazione. L’erba del vicino sembra sempre più verde».
Qual è il suo futuro?
Non ho ancora deciso, ma spero che la mia prossima sfida mi darà l’opportunità di condividere pienamente la mia esperienza maturata qui in Italia. Quando dopo 26 anni ho lasciato Irish Rugby la mia motivazione principale era di crescere come persona e professionalmente. Quando sei anni fa ho firmato il gentleman agreement a Dublino con Alfredo Gavazzi, su un tovagliolo di lino nel Gresham Hotel in O’Connell Street, non mi rendevo conto della portata della sfida in Italia, ma avevo completa fiducia in Franco Ascione e sapevo che avrei avuto il pieno sostegno di tutti in Fir per creare insieme qualcosa di speciale. Ero alla ricerca di una sfida unica per rivitalizzare il mio pensiero, che sento di aver acquisito durante il mio tempo qui. La pandemia di Covid-19 è stata difficile per tutti, soprattutto per gli italiani, e tutti hanno perso familiari e amici. Io ero a Parma, lontano dalla mia famiglia durante questo periodo buio, quindi, dopo aver completato il mio contratto a giugno, non vedo l’ora di tornare a casa in Irlanda e passare di nuovo del tempo con la mia famiglia».
Che eredità lascia?
«Penso che questa domanda sia meglio rivolgerla ai miei colleghi, dal momento che i valori che posso aver trasmesso ora sono nelle loro menti e nei loro cuori. Se vuoi sviluppare giocatori di valore, allora devi sviluppare staff di valore e allenatori di valore. Posso dire che i nostri risultati non sarebbero stati possibili senza l’incredibile passione, competenza e spinta delle persone con cui ho lavorato in Fir, alle Zebre e al Benetton Treviso. Sono stato particolarmente fortunato ad avere un gruppo ristretto di persone di talento che hanno governato, amministrato, gestito e realizzato il percorso dei giocatori di alto livello, i programmi di allenamento per le squadre delle varie età durante il mio tempo qui. Ovviamente mi piace pensare di aver contribuito a migliorare le loro competenze tecniche. Ma soprattutto voglio credere di averli aiutati a svilupparsi come persone, a diventare più consapevoli di sé stessi, più consapevoli degli altri e a provare fiducia e orgoglio per il nostro lavoro comune.
Il piacere più grande è quello di vedere i nostri giovani progredire attraverso il percorso che abbiamo stabilito, dalle giovanili fino alle franchigie e infine in azzurro. Guadagnando prima fiducia in sé stessi, poi il rispetto dei loro avversari, e alla fine vincendo e rendendo così i giocatori del passato, i sostenitori, i loro amici e la famiglia orgogliosi di chi sono e cosa rappresentano. Ma a questo traguardo è possibile arrivare solo insieme».
Nella foto del titolo: gli U20 Azzurri festeggiano la vittoria sul Galles nel Sei Nazioni 2020 a Colwyn Bay. Aboud è il primo a destra a fianco di Fabio Roselli. Della squadra fanno parte Trulla, Mori, Bertaccini, Paolo Garbisi, Varney, Lorenzo Cannone, Zuliani, Lucchesi, Favretto, tutti attualmente nel gruppo allargato di Gonzalo Quesada. (foto Craig Thomas/Replay Images, Federugby)