A ottobre del 2016 Allrugby intervistò il leggendario mediano di mischia dei Pumas Hugo Porta. Le cui considerazioni, a otto anni di distanza, restano di grande attualità, sua sul rugby argentino, che su quello azzurro.
Dunque Mr Porta come mai i suoi Pumas le presero dall’Italia nel 1978 a Rovigo (19-6)? Eppure nelle settimane precedenti avevate pareggiato con l’Inghilterra di Beaumont a Twickenham (13-13) e battuto il Galles a Llanelli (14-17): erano due Nazionali mascherate da selezioni e solo per la spocchia d’oltre Manica non vennero concessi i caps.
“Certo, in campo c’erano i giocatori dei primi XV di Inghilterra e Galles, nessun dubbio, ma noi li battemmo grazie a una grande determinazione. Fu una soddisfazione enorme. Invece l’Italia a Rovigo fu semplicemente migliore di noi: io riuscii solo a infilare un calcio e un drop perché i nostri avanti furono sovrastati dal pack italiano, mentre i trequarti azzurri imperversarono ben diretti da Zuin. Ricordo bene: quella Nazionale era stata appena affidata a Villepreux…un genio. Ho un ottimo ricordo di quel match, molto avvincente”.
Abbia pazienza un momento, mr. Porta (qui sotto in una foto di qualche anno fa) che ricapitoliamo: in quegli anni il pronostico fra Italia e Pumas era sempre incerto, pagava il fattore campo, e lo scambio di cortesie è restato equilibrato fino agli anni Novanta. Memorabili, per gli Azzurri, i trionfi nel 1995 alla Coppa del Mondo in Sudafrica (31-25) e nel test match a Piacenza nel 1998 (23-19). Poi, con il radicarsi del professionismo, l’Argentina ha messo la freccia cedendo all’Italia solo due match interni e sul filo di lana: 29-30 nel 2005 e 12-13 nel 2008, entrambi a Cordoba. Da lì in poi solo ko e per di più adesso i Pumas battono l’Australia e gli Springboks e non sfigurano nemmeno con gli All Blacks (poi addirittura battuti, 25-15, a Sydney a novembre del 2020, ndr). Ecco, allora, che cosa ha permesso ai Pumas questa crescita impetuosa? E che cosa manca ancora all’Italia?
“Intanto vi manca qualcosa che non potrete mai avere e che finirà per pesare ancora molto a lungo, almeno nei confronti di determinati paesi: vi manca un pezzo di storia. Ma non è colpa di nessuno se avete, rispetto all’Argentina, almeno 50 anni in meno di tradizione ovale. Sono tantissimi, almeno due generazioni. E poi il nostro scenario è decisamente unico, con i club che sono grandi famiglie che intrecciano la loro vita con quelle dei loro associati, appunto generazione dopo generazione. Nei nostri club, ci si ritrova, a tutte le età e di ogni estrazione sociale, per il piacere di stare insieme e di praticare sport, ogni tipo di sport. Io stesso potevo diventare un calciatore nel Boca Juniors, poi scelsi il rugby del Banco Nacion. E, ripeto, tutt’ora è la gioia di condividere vita e sport, e non certo il denaro, che anima la stragrande maggioranza del rugby argentino, una base sempre in grado di proporre talenti a quella ristrettissima élite protagonista del gioco professionistico che in questi anni si sta faticosamente strutturando. E questo vale da sempre anche per il calcio, il basket e la pallavolo. Non credo che in altri paesi ci sia qualcosa di simile ai club-famiglia argentini che si perpetuano da oltre due secoli”.
In effetti, ma allora l’Italia?
“Ho conosciuto bene anche la vostra realtà e tra l’altro i legami fra il rugby argentino e quello italiano restano molto forti anche se non c’è più quell’ondata migratoria divenuta persino preoccupante a cavallo del 2000”.
Preoccupante soprattutto per la pochezza di quei dirigenti italiani che tesserarono centinaia di argentini spesso a scatola chiusa alimentando illusioni e delusioni e chiudendo la strada ai ragazzi locali.
“Si trattava di un periodo storico-economico molto particolare e anche per noi non era facile salutare tutti quei giovani diretti in Italia e anche in Francia, ma adesso quella fase è ampiamente superata”.
Sì, grazie in particolare al rafforzamento del professionismo che però in Italia non ha ancora pagato abbastanza dividendi per salire nel ranking internazionale come hanno fatto i Pumas.
“Intanto però con l’ingresso nel Sei Nazioni si sta allargando la base dei praticanti, che è il primo indispensabile passo per crescere. Sono stato enormemente felice di questo allargamento del Torneo e non dimenticate che io stesso mi sono a lungo impegnato per trovare un approdo europeo per il rugby argentino perché lo ritenevo più adatto alle nostre forze rispetto all’emisfero sud”.
Ma i progressi dei Pumas nel Rugby Championship sono enormemente più concreti e rapidi a confronto di quelli dell’Italia nel Sei Nazioni.
“Si, ma siamo partiti da basi diverse. Il professionismo in Argentina ha subito pescato da un numero di giocatori adeguati assai più vasto di quello esistente in Italia. E nonostante questo non sono stati anni facili. È solo dal 2007, con l’exploit dei Pumas alla Coppa del Mondo in Francia, che si è abbozzata una strada che resta comunque in salita perché non crediate che per l’Argentina e la sua economia sia agevole sostenere la Nazionale nel “Quattro Nazioni” e la franchigia degli Jaguares nel Super Rugby”.
Franchigie sostenibili? Figuriamoci in Italia.
“Sì, non sarà facile, ma ripeto: non credo esistano da voi almeno 350 club di lunga tradizione e così ben strutturati, non solo per il rugby, come abbiamo in Argentina. Club dove si trova un buon ambiente educativo e un’ottima scuola di tecnici preparati e appassionati in cui il volontariato di qualità rappresenta tutt’ora la vera forza del movimento argentino che tiene molto anche a non perdere la propria personalità tecnica sia pure attingendo, per quanto riguarda all’élite, anche a scuole straniere come quella neozelandese o francese. Ma senza mai dimenticare gli storici e tradizionali punti di forza dei Pumas, del rugby argentino, perché altrimenti si perde la rotta. All’Italia, quindi, servirà ancora tempo, è naturale e normale anche se sembra che con il professionismo tutto debba andare in fretta. No, nel rugby non si può”.
Che gioia però vedere i Pumas battere Boks e Wallabies e tenere testa agli All Blacks.
“Ehm, l’Australia l’abbiamo battuta anche noi, ormai 30 anni fa, nel 1979 (24-13) e anche con i sudafricani ce la siamo sempre cavata bene superando selezioni molto simili alla Nazionale. E gli All Blacks li inchiodammo sul 21-21 nel 1985 (poi l. Certo che per affrontare questi Blacks serve prima di tutto una forma fisica impressionante in tutti e 23 i giocatori altrimenti alla fine diventa inevitabile perdere lucidità”.
Che partita, quel pareggio con la Nuova Zelanda, tutti e 21 punti di Porta (qui sopra con la maglia della nazionale albiceleste): quattro piazzati e tre drop.
“Lei è molto gentile a ricordarlo, ma senza il resto della squadra non avrei combinato nulla. Ad ogni modo, sì, vedere adesso questi Pumas è molto entusiasmante. Il confronto annuale con queste potenze, per quanto faticoso, sta dando buoni frutti a iniziare dal crescente numero di bambini che gioca a rugby, come avviene con voi grazie al Sei Nazioni. Che meraviglia quei match all’Olimpico”.
Dopo la carriera professionale e politica, che cosa sta aggiungendo ai suoi 58 caps dal 1971 al 1990 e al record di 590 punti per l’Argentina che l’ha portata nella Hall of Fame e che ha resistito per 22 anni (superato da Felipe Contepomi nel 2012)?
“Continuo a seguire il rugby, naturalmente, e mi dedico con grande passione alla sezione argentina della fondazione Laureus che punta a fornire aiuti per la pratica dello sport ai ragazzi meno privilegiati. È una missione bellissima tanto quanto segnare una meta agli All Blacks”.
Nella foto del titolo, Hugo Porta davanti al murale che lo raffigura nella città di Olivos capoluogo del partido di Vicente López nella provincia di Buenos Aires