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Il recente, fragoroso, successo mediatico della Nazionale femminile di calcio è un caso di scuola che anche il rugby italiano, alla vigilia della Coppa del Mondo dovrebbe studiare.
Alzino la mano quelli che tre mesi fa conoscevano almeno due nomi di giocatrici di calcio azzurre, si erano mai soffermati a guardare una partita di calcio femminile e sapevano chi fosse la CT dell’Italia. 
Il traguardo raggiunto, dal punto di vista tecnico è indiscutibile, nessuno lo vuole sminuire, ma era stato preceduto da un intenso bombardamento a tappeto di Sky e della Rai, iniziato peraltro già diversi mesi prima del Mondiale. Sotto la spinta dei due grandi network nazionali, uno pubblico e l’altro privato, anche i giornali sono stati invogliati ad adeguarsi e la mania è diventata generale.  
Non c’è niente di male, per carità, ad entusiasmarsi per il successo di una squadra italiana. Ma qui c’è di più, perché se la Fed Cup (la Davis femminile) nei suoi anni d’oro si conquistava lo spazio (nemmeno troppo grande, per la verità) a suon di vittorie – così come la Schiavone a Parigi e la Pennetta (in finale con la Vinci) a New York – nel caso del Mondiale femminile di calcio, il progetto è stato costruito in anticipo e, poi, ma solo poi, irrorato con i risultati e i gol. 
Un po’ come accadde con Azzurra nella Coppa America di vela negli anni Ottanta, e poi il Moro di Venezia e con Luna Rossa nella decade successiva. Ma lì c’era il peso di grandi imprese italiane consorziate in un progetto di grande respiro internazionale. Il seguito dei media era assicurato a priori. 
Qui il progetto era resuscitare il calcio per rifarsi del fiasco dell’anno precedente, la mancata qualificazione della Nazionale maschile per i Mondiali di Russia. 
E, all’inizio, sono bastate due vittorie per incendiare le platee. 
Ma provate a pensare ora che succederebbe se da qui in poi la Nazionale femminile perdesse una ventina di partite di fila, in un arco magari di cinque o sei anni senza vittorie. Anche il pallone delle ragazze tornerebbe nel dimenticatoio e addio gloria. 
Dunque: servono un progetto e un supporto forte dei media, dei network e degli sponsor.  Servono i risultati, certo, senza non si va lontano, e serve una causa nobile, che nel caso del calcio femminile è la parità di genere, venduta a prezzi di saldo in un paese che sul mercato del lavoro continua a considerare le donne soggetto inferiori. 
Il rugby alcune di queste condizioni, in passato, le ha soddisfatte tutte insieme: il Sei Nazioni su La7, e poi su Sky, quando gli incidenti negli stadi di calcio invogliavano il pubblico e gli addetti della comunicazione a guardare altrove. Le due vittorie nel Sei Nazioni del 2007 e del 2013, squilli di un’alba rimasta senza sole. Sponsor e televisioni ci hanno puntato, ma poi si sono arresi: pochi successi, pochi personaggi, scarsa capacità del rugby di raccontarsi e conquistare visibilità fuori dagli appuntamenti internazionali.
E così mentre sui media, nelle scorse settimane, ci si strappava le vesti per l’eliminazione della U21 dall’Europeo, il risultato dell’U20 del rugby ai Mondiali in Argentina (Scozia spedita in serie B e Georgia battuta senza storia) non si meritava neppure una citazione nei notiziari nazionali. 
Facciamo fatica a pensare che le vittorie (possibili) su Namibia e Canada il prossimo autunno in Giappone metteranno il rugby al centro del villaggio, come diceva Rudi Garcia. Però per ritagliarsi spazio non c’è altra via: vincere e imporsi in televisione. Cosa che il rugby italiano oggi non fa, o fa poco e non con le giuste scelte e nella giusta maniera. Anche l’abito fa il monaco, pardon lo spettacolo. 
Gianluca Barca

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